Quello che state per leggere è il primo appuntamento con IndItaly, una rubrica che ogni due settimane vi porterà su Kaleidoverse le opinioni e i pensieri dei principali esponenti della scena videoludica italiana. Una rubrica che si immergerà nel panorama indie del bel paese, esplorandone le principali produzioni e cercando di scoprire cosa vuol dire far videogiochi in Italia. Ospite di questa prima puntata è Simone Granata di Kibou Entertainment, studio dietro Timothy and the Mysterious Forest, un gioco che riesce a catturare magistralmente l’atmosfera delle opere per Game Boy, restituendo al contempo un’esperienza dannatamente attuale. Una vera e propria voce di spicco del panorama indipendente, che ci ha lasciato ben più di qualche intrigante spunto di riflessione.
Timothy and the Mysterious Forest: intervista a Simone Granata di Kibou Entertainment
Kibou Entertainment è una realtà che si suddivide tra Italia e Giappone. Una simbiosi tanto particolare quanto dannatamente interessante. Come funziona una collaborazione tra delle persone in due paesi così lontani, anche solo per quanto riguarda il fuso orario? Quali sono i vantaggi e le difficoltà di questa situazione?
Funziona inaspettatamente bene. O almeno direi: inaspettatamente per il senso comune. In realtà noi abbiamo sempre voluto legarci al Giappone ed al mercato giapponese sia per una questione di apprezzamento personale, sia per una questione di affinità produttiva. I nostri giochi sono “giapponesi” nell’anima e nell’estetica, poiché nel team veniamo tutti da quella particolare scuola di game development. La difficoltà principale è la comunicazione: il giapponese è una lingua complessa (anche se ci stiamo impegnando per imparare il più possibile) e l’inglese risolve il problema solo parzialmente. I differenti fusi orari fortunatamente non sono un problema: siamo tutti nottambuli abituali in Kibou Entertainment.
Uno dei vostri lavori più importanti è sicuramente Timothy and the Mysterious Forest, un zelda like che trasuda passione e nostalgia da ogni poro. Com’è stato lavorare in questi anni a un’opera che sembra essere uscita direttamente dall’epoca Game Boy? Siete contenti del risultato finale e dall’accoglienza ricevuta dal titolo?
Timothy è il nostro “figlio prediletto”, diventato tale tanto inaspettatamente quando piacevolmente. E’ un ibrido stealth/adventure/puzzle che cerca di differenziarsi da tutto, pur somigliando a molte cose. Realizzarlo è stato tremendamente divertente, anche perché era una vita che sognavo di fare qualcosa di simile. Sono felicissimo del risultato finale, anche se a causa di inesperienza (è il nostro primo gioco commerciale) e di limitazioni di budget e di tool, abbiamo dovuto rinunciare ad alcune cose che avevamo in mente. Ma forse ne faremo un remake con aggiunte e varianti, chissà! L’accoglienza del pubblico è stata più che buona, con opinioni generalmente favorevoli. Ora stiamo per affrontare la release giapponese del gioco, sperando di appassionare i giocatori anche là.
In Timothy and the Mysterious Forest capita spesso di dover cercare più e più volte la giusta combinazione per riuscire a superare una stanza, con il gioco che fa quindi largo uso della celebre meccanica del try & fail. Quali sono le sfide dell’implementare una meccanica del genere all’interno di un titolo, come si riesce a rendere l’esperienza di gioco sfidante ma non frustrante? Insomma, qual è il segreto per trovare un punto di equilibrio in tali situazioni?
Da appassionato hardcore gamer e soprattutto da giocatore che apprezza le sfide, mi sono spesso chiesto la stessa cosa. Poi ho capito dove sta la soluzione: bisogna dare al giocatore qualcosa per cui combattere, qualcosa per cui provare e riprovare. Mistero, senso di avventura, attesa per una ricompensa, voglia di scoprire cosa c’è “oltre l’ostacolo”. Il tutto condito con un livello di difficoltà alto ma non eccessivamente punitivo, cosa che si può ottenere mettendo checkpoint in modo corretto e mitigando la punizione con vari escamotage.
Attualmente state lavorando a Blood Opera Crescendo e Timothy and the Tower of Mu, due opere tanto diverse quanto ugualmente intriganti. Potete dirci qualcosa di più su questi titoli, quando potremo finalmente metterci le mani sopra?
Timothy and the Tower of Mu è il seguito di Mysterious Forest ed è attualmente in sviluppo. Il gioco sarà terminato a Dicembre 2021 e verrà pubblicato da Playism su PC (più versioni console di cui non posso ancora parlare in modo esteso). Tower of Mu ci ha dato soddisfazioni enormi, soprattutto considerato che il gioco ha vinto un contest che vedeva come giudici Koji Igarashi (Castlevania/Bloodstained), Daisuke Amaya (Cave Story), Takumi Naramura (LaMulana) e Rafael Grassetti (God of War). Abbiamo fatto grandi salti di qualità con questo gioco e speriamo di poter consegnare ai giocatori un’esperienza davvero piacevole, oltre che usare questo nuovo tool con il quale lavoriamo per dare ai prossimi titoli una marcia in più.
Blood Opera Crescendo, nostro primissimo gioco annunciato, è sotto pesante restyle: nato su RPG Maker MV, non ci soddisfaceva più in termini grafici e di concetto. Ora, sempre grazie al nuovo tool che usiamo, sta rinascendo migliorato e modificato, mantenendo intatta la sua essenza: ad inizio 2022 annunceremo la release date quindi restate sintonizzati!
Passando ora al panorama videoludico italiano, com’è sviluppare videogiochi in Italia? Quali sono le maggiori problematiche che vi trovate ad affrontare nel nostro paese, il vostro essere localizzati anche in Giappone vi dà una mano a riguardo?
Ho sempre avuto una pessima opinione dell’Italia in generale, sin da quando ero adolescente. Crescendo ed esplorando il panorama videoludico italiano non ho fatto altro che confermare questa mia opinione. Personalmente ritengo l’Italia un paese in cui sviluppare videogiochi voglia dire addentrarsi in un terreno infido e problematico, sia a causa della completa noncuranza di Stato ed enti associati, sia a causa del settore in sé che soffre della tipica competitività malsana e spesso scorretta che viene spesso affiancata al nostro paese. Sono felicissimo di essermi allontanato dal “giro” locale e di lavorare quasi esclusivamente con il mercato giapponese: sto trovando accoglienza, professionalità, simpatia e grande fantasia. Io mi ritengo un creativo: sono uno spirito ribelle ed abbastanza fuori dagli schemi. I developers giapponesi mi sono molto simili e mi piace tanto avere a che fare con loro.
Secondo voi lo spiraglio che si è aperto negli ultimi tempi (ad esempio con il First Playable Fund) è abbastanza per aiutare gli studi indipendenti del nostro paese o c’è ancora molto da fare prima di rendere il suolo italiano appetibile per il settore videoludico?
Considerato che sono “per metà” giornalista videoludico, ho esaminato con cura la faccenda First Playable Fund e ne ho indicato ai tempi i molteplici aspetti negativi. Poi, un paio di settimane fa, i miei timori sono stati confermati dai fatti che le principali testate generaliste hanno menzionato. Forse ai più sfugge che nel nostro paese il settore degli sviluppatori è formato in gran parte da persone senza budget, che sviluppa nel tempo libero ed auto-finanziandosi, vista l’impossibilità di accedere a fondi di altro genere (come il First Playable Fund che ha paletti a mio avviso ridicoli).
Le poche software house che si tengono in piedi da sole sono, paradossalmente, le uniche che avrebbero accesso a questi strumenti di aiuto. Come ho detto in altra congiuntura, si pensa “ad innaffiare le piante già cresciute lasciando morire i germogli”. Se si vuole davvero far crescere questo giro bisogna prepararsi a perdere un po’ di soldi, bisogna rischiare. Gli altri paesi l’hanno fatto e ora godono di ottimi vantaggi in questo senso, anche grazie al diffuso senso di accettazione verso il videogioco in generale (che qui da noi invece è spesso osteggiato e deriso nonostante tutto). Secondo me, di questo passo, ci vorranno ancora anni. Anche se, fortunatamente, penso e spero osserverò queste evoluzioni dalle sponde della costa giapponese.