Il momento è finalmente giunto. Il film conclusivo di una delle saghe più iconiche del panorama fantascientifico mondiale è approdato in Italia. Dopo aver riscosso enorme successo in Giappone, totalizzando incassi per 75,7 milioni di dollari, piazzandosi di conseguenza al 22° posto per incassi tra tutti i film Giapponesi mai usciti, Evangelion 3.0+1.0 giunge all’attenzione degli spettatori italiani; grazie ad Amazon Prime Video infatti, dal 13 agosto, chiunque lo desideri potrà recuperare i primi tre film della saga (Evangelion 1.0; Evangelion 2.0; Evangelion 3.0) per poi godersi la conclusione dello stupendo viaggio che Hideaki Anno ha partorito. Per chi invece, negli anni, ha recuperato i tre prequel, l’arrivo del quarto ed ultimo capitolo segna, per certo, non solo la chiusura di un cerchio ma un sospiro di sollievo la cui espirazione durava da nove lunghi anni.
Occorre precisare a chi vorrà continuare a leggere, che la recensione conterrà spoiler.
Progetto Rebuild
Era il 2007 quando l’eccentrico Anno decise che la sua opera magna, Neon Genesis Evangelion, necessitava di quello che, in un primo momento sembrò un semplice svecchiamento. L’intento? Permettere alle nuove generazioni di approcciare l’opera che forse più di tutte rivoluzionò il linguaggio degli anime, nel Giappone degli anni ’90. La tradizione del mecha giapponese, grazie a Evangelion, abbandonò gli stilemi classici che personalità del calibro di Go Nagai avevano contribuito a rendere grandi e riconoscibili. Con questo desiderio nasce il primo film del progetto Rebuild: come ricorda il nome, si cercò di ripartire dalle fondamenta per ricostruire Evangelion, attingendo all’esperienza e alla crescita maturate dai tempi della prima trasposizione animata. Con un secondo film pubblicato nel 2009 e un terzo nel 2012, i lavori sembrano proseguire in maniera spedita. I fan, stretti dall’amore per opera ed autore, iniziano ad aspettare la conclusione della nuova visione immaginifica di Anno.
Di anni però, da quel 2012, ne passano nove. Tra notizie contrastanti, attese snervanti e comunicazione incostante, si arriva al 2021. Tra i tanti disagi causati dalla pandemia, la speranza dei fan è mite, nessuno crede che sarà possibile assistere, di lì a breve, alla magnificenza che Anno teneva in serbo da quasi una decade. Ma il film esce, prima in Giappone e poi nel resto del mondo e le reazioni del grande pubblico iniziano subito a cozzare, si creano gli estremi, a chi il ripudio e a chi l’amore.
Incipit
Iniziamo col dire che la pellicola di Hideaki Anno, prodotta dallo studio Khara, comincia con la volontà di rappresentare il più diretto ed esplicito sequel possibile. Per la prima volta forse dall’inizio dell’opera, l’azione appare più chiara e definita, lo spettatore è preparato a ciò che avviene su schermo e, nonostante ciò, le sorprese non tardano ad arrivare: la prima sequenza vuole immediatamente mostrare i muscoli. Lo spettatore viene immediatamente proiettato dentro l’azione con un primo combattimento tra Mari, l’enigmatico personaggio che già dal terzo film aveva sollevato tanti interrogativi e alcuni squadroni di Evangelion senza pilota, denominati 44 A, 44 B e 44 C. Viene subito mostrata la potenza visiva che potrà essere capace di comunicare il film nelle sue 2.35 ore di durata.
Personaggi
Come nella miglior tradizione di Anno regista, nulla succede per caso: quelle prime scene fatte di combattimenti mozzafiato e regia ai limiti dell’eccentrico, faranno da apripista per l’introduzione dei cosiddetti dispositivi Anti-L, imponenti torri utili a disperdere la miasmatica aura che il Third Impact (Evangelion 3.0) aveva favorito a diffondere su tutto il globo.
Lo spettatore vive, sin da subito, un picco di tensione. Basterà, però, proseguire la visione per una decina di minuti per essere catapultati in atmosfere differenti e dimensioni anomale. Da Parigi, luogo che viene mostrato come quello da cui prendono il via le vicende del quarto film, veniamo catapultati in Giappone, il centro nevralgico di tutta la storia di Evangelion e ciò che si para davanti agli occhi di uno spettatore impaziente è la trinità che ha reso grande la serie e l’immaginario che la abbraccia: Shinji Ikari, Asuka Shikinami-Langley e Rey Ayanami. Tre visi, tre storie che ogni fan della serie ha imparato ad amare negli anni.
E con ineluttabile fermezza, i tre figurano esattamente come ci si aspetta: a capeggiare l’avanzata è un’Asuka tronfia e sprezzante, arrabbiata con la vita ma consapevole di quale sia il suo ruolo sulla terra; l’impassibile Rei, conscia della sua natura di clone ma stoica e distaccata come solo un guscio semi-vuoto può essere; a chiudere la fila, l’assente Shinji che con sguardo basso e vuoto segue a qualche metro di distanza le due ragazze, forse un po’ per abitudine, forse per rassegnazione.
Il peso della marginalità
Da queste prime battute, la sensazione che potrebbe attanagliare lo spettatore è quella di un “more of the same”: i caratteri sono immutati dai film precedenti, forse addirittura amplificati. Ma si nota qualcosa che sembra aprire uno spiraglio ai cambiamenti. Si assiste a dei ritorni importanti e a delle rivelazioni di un certo peso: Toji Suzuara, il bulletto che tutti ricordiamo come colui che prese a pugni un’asettico Shinji, è adesso un medico o, come dirà lui stesso, ne interpreta la parte affiancato dalla premurosa moglie, la Capoclasse, segreta cotta del giovane Suzuara. Ai due si affianca Kensuke Aida, lo storico amico che sempre ha rappresentato una figura positiva, cordiale e curiosa. Sarà inevitabile emozionarsi nel rivedere delle facce così facilmente dimenticate e così naturalmente invecchiate.
Perché è dunque così importante la presenza di personaggi apparentemente così marginali?
L’umanità è ridotta all’osso, ammassata in piccole comunità rurali consapevoli che da un momento all’altro la vita potrebbe essere estirpata dalla Terra. La sopravvivenza è l’obiettivo. Al centro di tutto, almeno inizialmente, viene mostrata la comunità, il pensare all’altro, il prendersi cura del prossimo. In quest’ottica non servono eroi né martiri ma semplici uomini ed è questo che i comprimari rappresentano: persone, convenzionali umani in un mondo che di umano ha ormai ben poco.
Umanesimo: Shinji Ikari
Evangelion 3.0+1.0 si presenta come l’opera più umanistica di Anno: la prima metà della pellicola si concentra fortemente sui personaggi e sulla loro umanità, eviscerandone le peculiarità. Shinji diventa la più ampia estrinsecazione del dilemma del porcospino che già dalla prima serie ci era stato spiegato dalla dottoressa Ritsuko Akagi:
“Il porcospino avrebbe voluto fare amicizia con il prossimo, ma quando si avvicinava a un suo simile entrambi si ferivano con gli aculei che ricoprivano i loro corpi. Lo stesso capita ad alcune persone: Shinji in fondo al suo cuore è spaventato dal dolore che potrebbe provare e questo lo rende freddo e riservato.”
Il nostro protagonista, memore della morte di Kaworu Nagisa (Evangelion 3.0) fatica a reagire e allo stesso tempo, come viene spiegato in maniera fortemente d’impatto dalla stessa Asuka nel corso del film, ha paura di vivere quanta ne ha di morire. Purtuttavia, grazie anche all’abitudinarietà con cui i fan l’hanno sempre percepito, sarà in grado di stupire chiunque quando, alleviato nelle sofferenze da una innocente Ayanami, muterà ed evolverà la sue ragioni durante il fluire di tutta la visione. Mai si è visto uno Shinji così determinato nei suoi scopi. La coscienza della morte e della sua ineluttabilità apriranno gli occhi al giovane protagonista su ciò che sempre lo ha portato a rimanere immobile. L’apertura del guscio. La presa di coscienza di essere solo un prodotto di un destino beffardo costellato da persone divorate dal turbinio degli eventi.
Nostalgia dell’ignoto: Rei “sosia” Ayanami
Una delle trattazioni più romantiche e affascinanti è riservata alla “sosia” Ayanami. La natura di Rei è ormai nota agli spettatori ma, nonostante ciò, si ricerca in lei la più vera umanità: le domande che porrà durante la prima parte della pellicola saranno ammantate da un tenero candore bambinesco che potrebbe anche infastidire lo spettatore ma che i personaggi a schermo affronteranno con estremo garbo.
“Cos’è un gatto? Cos’è il lavoro? Chi sono io? Qual è il mio nome?”.
Il nome. Il primo vascello di comunicazione che ognuno di noi affida al suo interlocutore. La Sosia ha un nome? E soprattutto, lei si rivede nel nome con cui tutti la conoscono? Data la sua natura di clone, sarà un problema chiamarla Ayanami?
La spiegazione a questi interrogativi diventa forse meno romantica quando, grazie alle influenze di personaggi terziari, mostrate tramite un montaggio di momenti di “slice of life” (tra i più teneri mai fruiti dal sottoscritto), la consapevolezza della ragazza cresce al punto da elaborare il concetto di libero arbitrio. Essere artefici del proprio destino. Lo sviluppo del pensiero del poter essere chiunque si voglia, nonostante si presenti come la più alta forma di libertà, diventa per la ragazza nuova fonte di interrogativi: come fa qualcuno nato con un preciso scopo a concepirne uno diverso?
La risposta arriva quando, nella battute finali della prima parte, la Sosia chiede a Shinji di affibbiarle un nome. Rinnegando, apparentemente la sua libertà, abbraccia la sua idea di anarchia: seguire delle regole create da lei stessa. Non è importante che queste pre-esistano in lei. Il punto focale è l’auto-determinazione che la porterà a ritenere giusto delegare Shinji a prendere una decisione così importante come quella di attribuirle un nome.
La proposta della libertà come più alta metafora della costrizione.
L’unica consapevolezza: Asuka Shikinami-Langley
La rinomata pilota dell’unità multifunzione umanoide Evangelion 02 ci verrà presentata carica di rabbia e frustrazione. La vita non ha seguito il corso da lei sperato. L’immobilità di Shinji ci da modo di assistere ad un attacco d’ira nei confronti del nostro protagonista, momento che si candida a diventare uno dei più iconici di Asuka. La sue parole riecheggeranno per l’intera durata della pellicola ponendo le basi per una riflessione importante, che potrebbe apparire banale ma che mai era stata così affrontata: la storia di Asuka è e sempre sarà inevitabilmente legata a quella di Shinji.
“Tu mi piacevi”
Timide parole, sussurrate in un momento di estrema lucidità nei confronti di Shinji. Uno dei rapporti che più ha appassionano il fandom sin dalla prima comparsa della Second Children durante l’ottavo episodio della serie, Asuka Strikes!
Ma proprio quando il punto di maturazione sembra essere ormai arrivato ad un culmine significativo, il regista burattinaio, tira le fila in una direzione anomala che mai era stata nemmeno intuita. Asuka, come Rei, è un clone? Bisogna credere a ciò che vediamo o la manipolazione della realtà cui assistiamo ha effetto sulla psiche di Asuka che, percependosi depersonalizzata dalla Maledizione dei Piloti, avverte la sua persona come una copia di qualcos’altro? O ancora, è possibile che si tratti di un trucchetto meta-narrativo di Anno (abusati nella parte finale della pellicola) per farci intuire come l’Asuka della prima serie sia ormai un’entità di pura coscienza che cerca di guidare la sua controparte del Rebuild verso la vera liberazione dal giogo della pesante vita che, sempre, ne ha devastato la crescita?
La persistenza: Misato Katsuragi
L’umanità sopravvive e se riesce a farlo è grazie all’immensa figura del Colonnello Katsuragi e alla Wille, l’organizzazione da lei fondata ed amministrata, diretta avversaria della Nerv, guidata invece dal padre di Shinji, Gendo Ikari. La Misato che ci si para davanti ha ormai abbandonato la paure e le paturnie che per tempo l’avevano afflitta nel suo percorso di maturazione, per assurgere al ruolo di faro della Resistenza.
Come ogni simbolo, Misato tende ad affrontare la solitudine con la quiete di chi ha una scelta unica. La incontriamo per la prima volta chiusa in una camera molto particolare, completamente sola e circondata da marchingegni bianchi ed asettici; il richiamo concettuale alla fortezza della solitudine di Superman ci permette di contestualizzare lo stato d’animo di chi sa di avere il peso del mondo addosso.
La macrocosmica concezione della Misato guerriera trova subito la microcosmica contrapposizione della madre tormentata: scopriamo, infatti, che Misato e Rioji Kaji, uno tra i più indecifrabili personaggi dell’intera opera, a seguito di una relazione, hanno messo alla luce un bambino di cui Shinji farà la conoscenza durante il film.
Il senso di colpa di Misato dato dalla consapevolezza di non poter essere allo stesso tempo una buona madre ed il faro dell’umanità, la renderanno ancora più determinata nei suoi obiettivi. Se l’umanità sarà salva, lo sarà anche quella piccola estensione di lei e dell’amato Kaji. Gli sforzi dei due genitori eroi non dovranno essere vani. Ed è così che Misato saluta lo spettatore: un ultimo sguardo alla foto che Shinji e suo figlio avevano scattato poco tempo prima, un pensiero a Kaji e conscia del suo ruolo sociale nel nuovo mondo, senza esitazione alla conduzione di un attacco suicida, nell’eterna lotta, che Evangelion ha sempre presentato, tra genitori e figli. “Tuo padre ha voluto tutto questo” obietta Gendo Ikari, “Fermerò il delirio di mio padre” risponde Misato Katsuragi.
Il primo aculeo: Gendo Ikari
Le colpe dei genitori che si ripercuotono sui figli. Quante volte abbiamo sentito questa trattazione della psiche umana in Evangelion. Ed ogni volta, al centro di tutto, spiccava la figura genitoriale più controversa dell’intera serie. Gendo Ikari, padre di Shinji, viene da subito presentato come il freddo calcolatore senza scrupoli, inondato di conoscenza. Parla di come si debba uccidere un Dio e del perché ciò sia necessario per il progetto di perfezionamento dell’uomo. Ciò cui anela è l’elevazione dell’uomo al grado di Dio tramite l’unificazione delle coscienze. Nessuna differenza monetaria, di estrazione sociale, di sesso, di etnia. Tutti gli uomini saranno in uno.
Ciò che colpirà non sarà però l’enorme ed inconcepibile piano, quanto l’ammissione delle sue debolezze, da sempre sapientemente nascoste. Il lungo dialogo con Shinji, tra meta-narrazione, flashback e psichedelia visiva, porterà alla grande rivelazione: il primo porcospino era proprio Gendo.
Uomo dal carattere chiuso, mai legato a nessuno, trova in Yui, sua moglie e madre di Shinji, l’unico essere umano per cui valga la pena vivere. Alla sua scomparsa, il senso di inadeguatezza nei confronti prima della vita e poi del piccolo figlioletto, lo porterà a generare una barriera comunicativa inscalfibile. Scopriamo così l’origine delle difficoltà di Shinji e, a valanga, arriviamo ad una verità valida per entrambi gli uomini della famiglia Ikari: ciò di cui hanno bisogno è l’amore. Un padre il cui unico amore fu strappato via, non sarà in grado di trasmetterne al figlio che, incapace di generarlo da se, continuerà a chiudersi. Finché, messi alle strette, i due non si lanceranno in uno dei dialoghi più forti ed importanti dell’intera serie.
Colonna sonora
Trasmettere un’emozione è la cosa più difficile e banale allo stesso tempo. Quando, però, la scelta di ogni singola nota appare oculata e mirata a costruirla, quell’emozione, ecco che da semplice opera d’intrattenimento, Evangelion 3.0+1.0 diventa vera magia. La colonna sonora di Shiro Sagisu, “Music From Shin Evangelion” è un continuo ed enorme abbraccio, necessario a corroborare i sensi che si ritrovano a fruire della pellicola. Ogni melodia è costruita sull’immagine. Ogni strumento recita la propria poesia. Un semplice pianoforte riesce a catapultare lo spettatore in una dimensione diversa.
La canzone finale, One Last Kiss di Utada Hikaru rappresenta la perfetta conclusione dell’opera. A differenza di End Of Evangelion, il finale della serie originale, non si ricerca il ritorno né s’intona un’ode alla morte. Frasi come “We all return to nothing” vengono adesso sostituite da più semplici “Can You Give Me One Last Kiss? It’s Something that I Don’t Want To Forget”. Questo è ciò che Hideaki Anno vuole mostrarci: la sua personale evoluzione. Non più la ricerca di un nuovo inizio, sperando in cambiamento ma il cambiamento avvenuto. La maturazione di una persona con forti problemi depressivi che, finalmente, riesce a sentirsi libera di provare felicità, salutando con un ultimo bacio la sua opera.
Grafica e stile
il film, visivamente, rappresenta una delle più complesse esperienze che la mente umana possa concepire. Dalle magnificenti sequenze di combattimento ai momenti di vita quotidiana, vi è maestria d’esecuzione, attenzione al dettaglio, impasti di idee. Non viene difficile pensare, durante certe sequenze, a come Anno si sia ispirato a suoi illustri colleghi: l’estrosa follia alla Paprika di Satoshi Kon rivive durante il lungo dialogo tra Shinji e Gendo, la puntualità nella creazione di meccanismi elettronici dettagliati al fine di giustificarne il funzionamento strizza l’occhio alla cultura fantascientifico-distopica di Mamoru Oshii e del suo Ghost in the Shell.
In conclusione
Hideaki Anno ha vinto. Non ha lasciato che la parte più oscura di se stesso lo fermasse. E se anno ha vinto, è giusto che tutti noi esultiamo al suo fianco. Evangelion 3.0+1.0 è il primo progetto legato all’universo di Eva che, a modesto parer di chi redige, non necessita di uno snocciolamento eccessivamente puntiglioso. Nonostante ogni spettatore sarà sicuramente curioso di saperne di più su molte questioni (Maria Iscariota? La Croce del Golgota? I cloni di Asuka? La Lancia di Gaius?) il quarto capitolo del progetto Rebuild segna uno dei punti più alti e romantici della vita di Anno.
Evangelion ha sempre affascinato per i suoi misteri ma forse è ancora più importante che non tutti questi vengano risolti, per il semplice fatto che il punto dell’intera opera non è mai stato la risoluzione delle enigmatiche previsioni delle pergamene del mar morto, giusto per dirne una. Il punto di tutta l’opera sta nei suoi personaggi e nel modo in cui essi continuano a sperimentare la vita in tutte le sue forme, contro ogni timore. Il finale, tra paradossi concettuali, citazionismo ad End Of evangelion e romanticismo, risulta commovente nella sua semplicità. L’infelicità non viene sconfitta ma elaborata come parte fondante della vita e, come tale, riesce a creare una giustificazione in chi ne fruisce.
Un grande viaggio è giunto al termine. La gratitudine nasce dall’esserci stati. Hideaki Anno adesso, forse, è felice. Il suo più grande viaggio interiore ha raggiunto un punto fisso. Festeggino i fan di opera ed autore. Se questa recensione vi è piaciuta, vi invitiamo a iscrivervi al nostro canale Telegram e a seguirci su Kaleidoverse!
Buonanotte. Buongiorno. Ti Ringrazio. Arrivederci.
Evangelion 3.0+1.0 Thrice Upon a Time porta con sé tante responsabilità: dall'aspettativa decennale alla chiusura di una delle opere più amate e complesse degli ultimi trent'anni. Consapevole di ciò, il suo regista, HIdeaki Anno, non fatica a divertirsi mostrando allo spettatore una magnificente opera, colma di grafica all'avanguadia, colonna sonora identitaria e personaggi consapevoli. Raro caso in cui l'autore sovrasta ciò che avviene su schermo.