Dopo aver parlato qualche settimana fa con Simone Granata e Kibou Entertainment, IndItaly torna quest’oggi con un’intervista esclusiva a Broken Arm Games, lo studio dietro il coloratissimo e profondo Hundred Days, un gestionale che ci mette al comando di un’azienda vinicola. Un’esperienza intrigante, in cui il videogioco si lega a uno dei settori storici del nostro paese, come quello del vino. Hundred Days è insomma uno dei prodotti videoludici più interessanti nati sul suolo italiano negli ultimi tempi e non potevamo quindi certo esimerci dallo scambiare due chiacchiere con Elisa Farinetti di Broken Arm Games, per parlare del loro lavoro e di cosa significhi fare videogiochi in Italia.
Hundred Days: intervista a Elisa Farinetti di Broken Arm Games
Hundred Days è un progetto assolutamente peculiare, che mette insieme una delle industrie più storiche a livello italiano, quella del vino, con un settore che è invece ancora un po’ acerbo nel nostro paese, ossia quello dello sviluppo di videogiochi. Come vi è venuto in mente di creare un titolo su tale tematica, cosa vi ha spinto a concentrarvi proprio sull’industria vinicola?
Diciamo che per capire come siamo arrivati a sviluppare un titolo come Hundred Days è necessario partire da Broken Arms. Noi siamo un piccolo studio di sviluppo che nasce e cresce in provincia di Alessandria, in una piccola città che si chiama Acqui Terme. Sia io che il mio socio Yves siamo cresciuti in quest’area a cavallo tra Monferrato e Langhe, più precisamente io nel Monferrato e lui in Langa. Abbiamo entrambi studiato informatica, ma le nostre famiglie hanno un background nella produzione vitivinicola. Più precisamente la famiglia di Yves si è trasferita dalla Svizzera a Cassinasco, un piccolo comune nelle colline sopra Canelli, circa 30 anni fa, per produrre vino. Una passione che Yves porta avanti lateralmente a quella come game deveoloper.
Hundred Days nasce quindi dalla voglia di raccontare il nostro territorio e dal nostro background personale. Un percorso che abbiamo voluto trasformare in videogioco, forse un suo unico all’interno del mondo videoludico.
Per dare alla luce un’opera completa e stratificata come Hundred Days è sicuramente stato necessario conoscere a fondo ogni singolo aspetto che governa un’azienda vinicola. Avete chiesto aiuto a una delle tante cantine presenti sul suolo italiano o avete qualche esperto del tema presente in azienda?
Come detto precedentemente, le conoscenze enologiche le avevamo già in casa, con Yves che possiede anche un diploma da enotecnico e ha esercitato per lungo tempo nella cantina di famiglia e in altre cantine. Oltre a questo ci siamo avvalsi del prezioso aiuto di qualche cantina locale di amici, che ci ha dato un po’ di dati grezzi dei loro processi lavorativi e ci ha aperto le porte per permettere al team di visitare un sito di produzione vero e proprio.
Nel caso abbiate dovuto informarvi presso qualche realtà italiana del mondo del vino, qual è stata la reazione che avete ottenuto dal vostro interlocutore quando gli avete detto che stavate lavorando a un videogioco? Curiosità, diffidenza o che altro?
Le cantine che ci hanno dato supporto sono tutte dirette da amici nostri coetanei, tutti ex-compagni di scuola di Yves. Si tratta quindi di ragazzi e ragazze che conoscono il mondo del gaming e che sono spesso anche giocatori. Quando abbiamo iniziato a presentare loro il nostro progetto si sono subito dimostrati molto interessati e propositivi. La lavorazione è durata oltre due anni e mezzo e il supporto di questa rete di amicizia, che credeva nel progetto, è stata a dir poco fondamentale: ci hanno decisamente supportato alla grande.
Uno degli aspetti più affascinanti di Hundred Days è sicuramente quello relativo all’impianto artistico e alla scelta della palette cromatica. Ogni singolo screenshoot del gioco riesce infatti ad affascinare, restituendo in pieno l’immaginario agrario che ci si aspetterebbe di trovare in un’azienda vinicola. Come siete riusciti a catturare con così tanta fedeltà questo mondo?
Fin dai primissimi brain-storming sapevamo di voler restituire una immagine forte e distintiva. Volevamo descrivere “la grande bellezza” della nostra regione e renderle giustizia in ogni modo. Ci siamo messi quindi alla ricerca di una direzione artistica forte e navigando sui vari siti tipo Artstation o Behance abbiamo trovato un giovane duo di artisti francesi che aveva in portfolio cose molto particolari e di cui ci siamo innamorati. L’altro ragionamento che abbiamo portato avanti in parallelo alla ricerca della direzione artistica è stata la comunicazione del vino. Nel mondo il vino parla ancora francese (nonostante l’Italia batta i cugini in export e varietà) e sapevamo quindi di dover dare un tocco di Francia per essere comunicativamente efficaci. Ecco perché le nostre cantine piemontesi hanno una vaga parvenza di Chateaux rispetto allo stereotipo della Crota.
Spostandoci ora su quello che è il panorama videoludico del nostro paese, com’è sviluppare un videogioco in Italia? Quali sono le sfide maggiori che avete dovuto affrontare?
Diciamo che le sfide che abbiamo affrontato sono le stesse di un qualsiasi business/startup/nuovo progetto che parte da zero. Fortunatamente avevamo una disponibilità economica iniziale che abbiamo investito per creare una prima vertical slice e poi siamo andati alla ricerca di investimenti per completare il progetto. Aziendalmente eravamo già strutturati in Smart working (3 di noi lavorano da Acqui Terme e 3 da remoto) e quindi la pandemia ha impattato molto poco sulla nostra produzione.
Sviluppare un titolo in Italia o altrove a mio parere comporta le stesse identiche sfide, anche se in stati come UK, Germania o Francia ci sono più connessioni e più investimenti. Come micro studio devi infatti in ogni caso correre la tua corsa per arrivare all’obbiettivo. Al titolo hanno lavorato quasi 25 persone, con la nostra azienda che è formata da 6 componenti; il resto sono freelance da mezza Europa che ci hanno portato le expertise mancanti.
Secondo voi lo spiraglio che si è aperto negli ultimi tempi (ad esempio con il First Playable Fund) è abbastanza per aiutare gli studi indipendenti del nostro paese o c’è ancora molto da fare prima di rendere il suolo italiano appetibile per il settore videoludico?
Il First Playable Fund è un grandissimo passo per l’industria italiana che a nostro parere apre le porte a scenari di crescita anche per realtà piccole come la nostra. Si tratta di uno step fondamentale per consolidare le aziende italiane: sta ora alla classe imprenditoriale italiana mostrare di cosa è capace e correre, come dicevo prima, la maratona del mercato per posizionarsi sempre più in alto.