Benvenuti fan di Kaleidoverse, oggi siamo qui per presentarvi un articolo molto speciale, ovvero il primo di una serie a tema, Inside a Mind, che spera di intrattenervi ogni settimana. Sto parlando della nostra prima rubrica di film a tema psicologico, dove ci proponiamo non solo di consigliarvi pellicole molto particolari, ma anche, dove possibile, di darvi qualche piccola indicazione istruttiva sull’argomento. Insomma, siamo tutti esseri umani, quindi come possiamo non essere affascinati dal modo in cui ragioniamo, ci rapportiamo agli altri… e soprattutto a come la nostra mente talvolta si comporti in un modo un po’ disfunzionale? Per cominciare in grande, oggi vi parleremo non di uno, ma di ben due opere, basate su un esperimento psicologico che ebbe luogo all’inizio degli anni ’70 da parte del professor Philip Zimbardo.
Lo studio originale
Nel 1971 il professore di psicologia dell’università di Stanford, Philip Zimbardo, cercò di comprendere come estremi fattori contestuali potessero condizionare il comportamento delle persone, inducendole alla violenza nonostante esse non avessero mai avuto inclinazioni aggressive. Sto parlando dello “Standford prison experiment”, uno studio in cui vennero reclutati 24 studenti volontari (maschi) e casualmente furono assegnati a due gruppi: metà avrebbero dovuto interpretare dei carcerieri, l’altra metà dei detenuti. Il tutto si svolse nei sotterrai del campus di Standford, in un’allestita finta prigione, e l’esperimento sarebbe dovuto durare due settimane. Perché il condizionale? I carcerieri, lasciati agire in piena liberà, iniziarono ad abusare così tanto del loro potere che lo studio non ebbe fine: venne interrotto dopo soli cinque giorni, per evitare compromissioni psicologiche ai partecipanti.
Il primo film: The Experiment
Remake del film The Experiment – Cercasi cavie umane, questo è un lungometraggio che consiglio se cercate lo spettacolo, forti emozioni e una grande inquietudine (potete trovarlo su Netflix). Se volete davvero sapere cosa accadde a Stendford invece passerei avanti. La brutalità di questa pellicola si estende oltre ogni immaginazione, dando un tono del tutto irrealistico all’esperimento, con le finte guardie che urinano sui prigionieri, rischiano di violentarli e un personaggio che arriva addirittura a morire. Eviterò di commentare tutti i dettagli sbagliati dell’esperimento in sé che risulterebbero solo noiosi (come il numero errato dei partecipanti), anche perché sono davvero l’ultimo problema dell’opera.
È del tutto assente l’aspetto psicologico che più risultava evidente nell’esperimento, ovvero la forte autorità che le guardie pian piano ottengono e la passività che ha indebolito le vittime al punto di renderle dei numeri più che degli esseri umani. Nel film sembra che tutto si riassuma con la parola “violenza”: lo sono le guardie e lo sono i prigionieri. Cosa successa anche nel vero esperimento a un certo punto, ma assolutamente non nel modo in cui la pellicola lo rappresenta. Come se non bastasse, è assurdo pensare che dall’esterno della finta prigione nessuno metta un punto a ciò e, da psicologa, mi ritengo personalmente offesa per come la mia categoria è rappresentata. Ambientazione, costumi e caratteri sono completamente sbagliati, ma ripeto, se volete un film meramente scenografico, allora questo fa per voi.
Il secondo film su Zimbardo: Effetto Lucifero
Questa seconda pellicola vuole essere molto più fedele all’esperimento di Zimbardo. Forse perché si vedono in modo diretto gli sperimentatori, cosa che ci fa sentire meno all’interno della prigione, forse perché la brutalità delle guardie è molto meno marcata e anche l’ambientazione ricorda molto di più un’effettiva università. Tuttavia, una critica è necessaria: gli sperimentatori sembrano altrettanto brutali. Nonostante vedano delle vessazioni molto gravi e un paio di personaggi facciano capire che vogliono lasciare l’esperimento, essi fanno il possibile per convincerli a rimanere e in altre scene parlano direttamente con loro intimidendoli. Questa è la cosa più sbagliata che possa accadere in uno studio: il distacco deve essere netto per non rischiare di alterare il test. Soprattutto, a livello psicologico ciò porta un altro effetto: il bisogno di soddisfare l’autorità, che in questo caso è rappresentata al massimo da Zimbardo stesso.
Tornando agli aspetti psicologici della sperimentazione, è stato bello vedere un cambiamento veloce, ma graduale, con delle guardie imbarazzate all’inizio per i loro doveri, ma con l’orgoglio che presto prende il sopravvento. Quando i detenuti iniziano a mostrare piccoli accenni di ribellione, i carcerieri si infuriano e, iniziando dal punire i detenuti facendogli fare degli esercizi fisici, pian piano degenerano fino a negare completamente i loro diritti. Verso la fine del film la passività dei detenuti fa star male anche lo spettatore, ma siccome è esattamente questo ciò che è accaduto, il risultato appare perfetto. È stato anche molto interessante osservare, sempre alla fine della pellicola, delle interviste rappresentative di quelle originali fatte ai soggetti dopo la fine del test.
Aspetti psicologici e metodologici dello studio di Zimbardo
Dal punto di vista psicologico ci sono molti aspetti da considerare. Primo lato positivo: Zimbardo specificò che tutti i volontari avrebbero potuto in ogni momento ritirarsi, fattore fondamentale in ogni sperimentazione. Tuttavia, i lati negativi sono molto maggiori; una prepotente deindividuizzazione è stata effettuata agli albori di tutto: i detenuti hanno dovuto indossare una catena, sandali e una calza sulla testa per evitare la rasatura dei capelli. A essi, e anche fra di loro, ci si doveva rivolgere esclusivamente con il numero cucito sul camice e, prima che avvenisse ciò, essi furono arrestati a casa da una pattuglia della polizia che collaborava all’esperimento. Andando avanti con il test gli individui del gruppo, inizialmente coesi, iniziarono a essere passivi agli abusi delle guardie, comportandosi effettivamente come dei prigionieri senza via di scampo. Anche le guardie indossavano una divisa da poliziotto e facevano turni standard di otto ore.
Un aspetto molto interessante è dato dall’appartenenza al gruppo delle guardie: il semplice indossare una divisa autoritaria, con tanto di manganello, la piena libertà di agire e il supporto dato dai propri compagni non ha fatto che alimentare in esse un comportamento da aguzzini che mai avrebbero avuto nella vita reale. Dopo soli due giorni cominciarono i primi episodi di violenza: i detenuti partirono con una ribellione, ma furono le guardie a esagerare. Queste iniziarono a intimidire e umiliare i detenuti, costringendoli a cantare canzoni oscene, defecare in secchi che non venivano vuotati e a pulire le latrine. Dopo questi episodi i detenuti tentarono addirittura di evadere. Quando al quinto giorno iniziarono ad apparire seri disturbi emotivi, i ricercatori interruppero l’esperimento.
Secondo l’opinione di Zimbardo, che ha anche assunto il ruolo di direttore del carcere, la prigione finta nella psiche dei soggetti era diventata vera. Il processo di deindividuizzazione avrebbe indotto a una perdita di responsabilità: gli individui agivano a livello di gruppo, ignorando sentimenti personali come vergogna, paura e senso di colpa, e spingendo ad azioni collettive. Sarebbe bastato, nell’esperimento, una piccola azione d’odio di un carceriere, per portare il gruppo ad agire in maniera più che violenta. In questo contesto i detenuti non erano persone, ma numeri. Il tutto dato da un’assegnazione completamente casuale: lo studio vorrebbe dimostrare come la situazione abbia creato la violenza; quindi, se la tesi è corretta, chiunque nelle stesse circostanze avrebbe agito nello stesso modo. Vedendo il secondo film è esattamente questo ciò che traspare: anche da spettatori non vediamo i personaggi singolarmente, osserviamo le divise e grazie a ciò distinguiamo vittime e vessatori.
Effetto Lucifero è il termine utilizzato da Zimbardo per indicare il processo per cui l’aggressività è influenzata dal contesto, dimostrando l’importanza dell’ambiente nel determinare le condotte individuali, fino ad allora attribuite quasi esclusivamente a fattori individuali. Non è un caso che questo sia il titolo della seconda pellicola. Tuttavia, sebbene l’esperimento sia stato fondamentale per successivi studi e teorie, non manca di critiche e non è sufficiente a rispondere alla domanda che da secoli è oggetto di dibattito: è la natura che ci rende noi stessi, o è l’ambiente ad influenzarci?

Conclusioni
Inutile dire che io ho personalmente considerato il secondo film infinitamente migliore del primo. Sicuramente manca la violenza gratuita che molti potrebbero gradire, ma queste pellicole sono create per trasmettere qualcosa di più di qualche cazzotto. Sono, o dovrebbero essere, istruttive, non scenografiche – come se poi non potessero essere entrambe le cose -. Effetto Lucifero merita moltissimo, fa vedere gli aspetti psicologici di tutti, non solo la violenza, ma anche i dubbi delle guardie, la paura e l’incredulità dei carcerati davanti a certi comportamenti e come l’ambiente sia in grado, tramite una divisa, uno strumento e la possibilità di chiudere a chiave una porta, di trasformare completamente una persona.
È assurdo pensare, come afferma il secondo film, che carcerati e vessatori dell’esperimento siano uguali, l’unica distinzione che c’è stata tra loro è stato il lancio di una moneta che ha segnato l’appartenenza ad un gruppo o ad un altro.
Speriamo che quest’analisi vi sia piaciuta e vi abbia incuriosito tanto da andare a vedere quanto meno il film Effetto Lucifero, ma anche The Experiment, in modo da farvi un’opinione voi stessi. Ci vediamo la settimana prossima per una nuova ed entusiasmante analisi, ma non attendete tanto per fare un salto sul sito di Kaleidoverse e rimanete sempre aggiornati per notizie su film, serie, giochi, guide e quant’altro sul nostro canale Telegram.