“La fortuna non va a braccetto con la costruzione” e “un’opera d’arte non può finire com’è iniziata“. Tenete bene a mente queste due frasi, saranno la chiave di lettura per tutto ciò che leggerete. Per la regia di Damien Power e sceneggiatura di Andrew Barrer e Gabriel Ferrari (Ant-man and the Wasp), Kaleidoverse presenta la recensione no spoiler di No Exit, nuovo thriller Star presente su Disney+. Ruby (Havana Rose Liu) è un ex tossico dipendente alcolista all’interno di un centro di riabilitazione. A causa di un evento tragico quanto urgente scappa dall’edificio, ma per via di una tempesta di neve è costretta a rifugiarsi all’interno dell’edificio della guardia forestale locale. All’interno, vi sono altre quattro persone, a loro volta costrette a interrompere il proprio viaggio per colpa del clima. Una convivenza forzata che immediatamente si trasforma in altamente pericolosa non appena la nostra protagonista scova una bambina imbavagliata all’interno di un’auto nel parcheggio.
Il picco
Questo il plot di un film ispirato, nella visione in cui trae ispirazione da chi ha già attuato un’impostazione narrativa di questo tipo, e di ispirazione, per via di una regia che, almeno nella prima parte, sperimenta modi nuovi di inquadrare sequenze di cui già sappiamo inizio, fine e svolgimento: un esempio sono i raccordi totali, descritti attraverso un’interessante composizione isometrica. Inoltre, l’attrice protagonista di No Exit riesce a scuotere costantemente la scena possedendo una gestualità e mimica facciale di una fluidità tipica del panorama attoriale contemporaneo, una sorta di flusso tra l’over-acting e la staticità che in un contesto dalle tinte horror come questo, risulta assolutamente pertinente.
L’opera si apre in maniera positiva: lo spettatore incontra una scrittura che introduce ogni personaggio e il corrispettivo background in maniera breve, coincisa e soprattutto unita all’andamento della situazione, senza quindi soffermarsi su ognuno dei presenti in scena e costruendo il quadro generale attraverso una serie di impliciti. Buon coinvolgimento, aspettativa di una buona storia. Tutto questo è fumo negli occhi.
L’inizio della fine
No Exit si perde in quello che dovrebbe essere il suo nucleo: progressivamente lascia andare la scrupolosa trasmissione d’informazioni in favore di un’estroversione “adatta” al contesto, costituita da eventi fortuiti e collegamenti forzati. L’identità della scrittura si trasforma da elemento originale a una fallita imitazione di ciò che dovrebbe rimanere un modello – parliamo di Quentin Tarantino -. La neve, la baita di legno, l’incontro con personalità variegate e il primato assoluto della parola come mezzo investigativo fanno ricordare un solo prodotto, e che sia intenzionale o meno, ne si sente l’ombra. Non tutte le opere hanno la pretesa di essere riconoscibili ma tutte dovrebbero immergere il fruitore nell’universo appena creato. Il film di Damien Power crea una serie di barriere fra le due cose.
Come già detto e come ci prestiamo ad approfondire, la scrittura cede sotto il corso degli eventi: tra incongruenze e fallacie logiche, le svolte e i colpi di scena, rigorosamente messi in fila uno dietro l’altro, cadono senza paracadute dalla torre in cui vogliono porsi. Un altro modo per dire che succede tutto casualmente, e se la funzione randomica non è ben introdotta o giustificata, lo spettatore rimarrà apatico di fronte a ogni grande rivelazione e intreccio presentato. Lo sceneggiatore può permettersi un ampio spazio di lavoro solo se possiede risorse necessarie a sorreggerlo, e una delle principali, riguarda coloro che dovranno mettere in luce quanto immaginato: il cast. Tolta la protagonista, il resto è inconsistente. Non c’è credibilità nei ruoli assegnati oltre l’aspetto esteriore, tutti si allineano perfettamente nella mediocrità.
Suono e sentimenti
Discorso analogo può esser effettuato per il comparto sonoro, il quale in prodotti del genere di solito rasenta l’invisibilità a livello percettivo e ciò non è assolutamente un male: la musica nel cinema nasce come grande accompagnatrice nonché strumento d’enfatizzazione. In No Exit invece viene riscontrato un problema quando un sound design, dei più classici e banali all’interno di un thriller, risulta quasi cacofonico. Manca di sintonia con le sequenze e non ne esalta il contenuto all’infuori dei classici “stalli” del cinema horror.
La tempesta fuori, il caldo della baia dentro, rimane sempre un abisso enorme tra il nostro mondo reale e l’universo filmico, non avviene alcun cambio di temperatura. Il sangue che si riscalda dall’adrenalina, il sudore freddo della paura, l’istinto che prevale su ogni nervo del corpo, la razionalità sotterrata sotto centimetri di rabbia, questo è ciò che si desidera provare osservando un ambiente del genere. A questa proposta viene consegnata una monotonia data dal classico “fiato sospeso” che qui, ha perso l’opportunità di differenziarsi.
Le nostre conclusioni su No Exit
Il finale vuole sorreggersi proprio su questa scricchiolante impalcatura emotiva, se siete in sintonia con quanto detto fin ora, potete ben intenderne gli effetti. Riprendendo il concetto dell’introduzione: la cosa peggiore che può accadere quando si parla di conclusione è l’assenza di cambiamento rispetto all’inizio, No Exit sembra prendere una matita e riavvolgere il nastro al contesto fisico ed emotivo di partenza. Palesemente una scelta, ma il viaggio sembra intrapreso solamente dalle entità della finzione e non dalle persone ferme da 96 minuti nella realtà.
E siamo alla fine anche di questa recensione, la dimostrazione per cui anche quando viene messa in gioco la parola “ispirazione”, non sempre si è davanti a qualcosa di positivo. Di certo però non si tratta di una carcassa da cui trarre solamente errori, No Exit è vittima di una graduale perdita d’identità, passando quindi da una prospettiva di un racconto buono, generata da un atto di presentazione che sembra poter sorreggere il carico emotivo desiderato, all’annebbiamento degli intenti e a una standardizzazione delle svolte narrative. Ciò da cui possiamo trarre ispirazione e beneficio, sono una prova attoriale interessante e una sperimentazione registica di un autore al suo secondo lungometraggio. Per questi motivi, No Exit risulta un prodotto sufficiente.
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No Exit è un prodotto vittima di una parabola discendente che scardina ogni asse di legno messa alla base del contesto costruito, insieme alla aspettative dello spettatore, ripiegando su sequenze prive di impatto emotivo per via della mancata originalità nella loro realizzazione. Di per sé la regia e la protagonista, reggono lo schermo, creando spunti interessanti.