Secondo voi, quanto bisogna tener conto del proprio pubblico nel creare una storia? Ma prima ancora, come immaginate quest’ipotetico pubblico? Dalla risposta a questa domanda ne deriverà il famigerato target e quindi l’insieme di emozioni, dinamiche, intrecci che si riterranno di loro gratitudine e comprensione. La giudice, nuova serie coreana targata Netflix, probabilmente ha risposto con un’immagine sfocata. Pregi lodevoli, difetti insopprimibili, quest’ultimi figli di un radicamento a terra, dove per “terra”, si intendono canoni tipici della serialità corale, atti a richiamare facili emozioni con facili messe in scena.
Ma c’è qualcosa che decisamente non si può tralasciare, che nonostante tutto resta e rende ciò che si è guardato un’esperienza si altalenante, variabile, andando avanti probabilmente apparirà tutto come una gigantesca contraddizione, ma positiva. Cerchiamo di mettere a posto il quadro. Sim Eun Seok (Kim Hye-su) è una giudice, atta a risolvere principalmente i casi assegnati all’interno del tribunale minorile in cui è stata appena trasferita. Il lavoro è diventato il nucleo della sua esistenza, ella stessa sembra essere in un costante stato di stasi, c’è un mistero che tiene nascosto a tutti e che funziona da evidenza della sua caratteristica principale: lei odia, i giovani criminali.
Più detective che giudice, più cuore che mente
La serie si introduce attraverso i classici elementi del genere investigativo: La protagonista si ribella ai proprio superiore, possiede un assistente fedele, salda forti legami con i propri indagati. Se spostiamo l’occhio sul tecnico possiamo fare lo stesso discorso: c’è la classica rappresentazione esplicita dei fatti, i quali cambiano a seconda della “campana”, c’è il brivido dell’inseguimento, l’adrenalina è iniettata all’interno di ogni singola sequenza, anche il dialogo più tranquillo, con un continuo susseguirsi di stacchi che alternano il ritratto alla figura intera, per passare al mezzo busto e concludere con un primissimo piano, tutto stringendo e allargando la messa a fuoco di una camera iperattiva, che vedremo però rallentare col passare degli episodi. Il comparto visivo, attraverso anche un’ottima gestione dei colori, possiede uno standard altamente soddisfacente e, specialmente in due puntate intermedie, si fa assistente di un comparto emotivo definibile prioritario.
Lo spettatore si troverà di fronte ad una stimolazione continua. Spesso i tempi vengono distesi e il mondo si blocca per ascoltare la sofferenza, silenziosa o meno, dei personaggi a schermo. Ciò purtroppo, diventa esagerazione. L’impulso elettrico diventa una scossa al cervello, portandolo a lungo andare a sostituire l’empatia con la noia, nonostante il gioco al rialzo che l’opera cerca di effettuare. Il sentimentalismo è parte dei demoni che trascinano giù questa serie verso l’attuazione di regole per il coinvolgimento dello spettatore vecchie quanto le toghe che vediamo indossare ai nostri protagonisti, specialmente in assenza di efficaci connessioni logiche.
La pretesa d’impatto
E qui si apre il grande scontro: Occhio vs Mente, L’immagine contro il testo. L’immagine può raccontare una storia intera in una sola inquadratura, attraverso una buona composizione, buona luce e una buona gestione della macchina in sé. Tutto questo non rappresenta assolutamente una mancanza all’interno de La giudice, e infatti come già accennato in precedenza, a volte risulta uno strumento potentissimo data la sua immediatezza. D’altra parte, una delle pecche maggiori della serie sta proprio nella scrittura. Le parole hanno bisogno di essere calibrate, di crescere lentamente, soltanto poi potranno esplodere nella mente e nell’anima dello spettatore. L’opera diretta da Jong-Chan Hong sorpassa ogni step e pretende l’ultimo punto, costruendo quindi molteplici e sorprendentemente diversificate sequenze d’impatto, aventi però un punto di partenza debole, non altrettanto potente da reggere ciò che vuole causare.
Questo tema inoltre è centrale nell’analisi dell’opera e del suo lento avvicinamento verso la banalità. I primi cinque episodi vedono presentare spunti parecchio interessanti: distorsione della camera, un tipo di zoom-in che ricorda l’amatorialità dei video effettuati col cellulare, un’alternanza temporale realizzata al fine di sorprendere e contemporaneamente trattenere lo spettatore nel processo di ricostruzione del caso; tutti punti che vanno pian piano a perdersi, a contorcersi su se stessi, abbandonati per lasciar spazio, ancora una volta, all’emozione. Vi sono però un insieme di fattori, provenienti da un certo cinema, una certa cultura, un certo modo di impersonificare una vita.
Il metodo d’Oriente
Di sicuro le performance attoriali fanno parte di quei pregi cui si parlava nell’intro: La protagonista è una magnete. Hye-Su riesce a trasmettere il passato infernale, di cui si lanciano indizi sin dal primissimo episodio, semplicemente smuovendo leggermente un viso scultoreo in precisi contesti e di fronte a specifiche dinamiche. Se vogliamo giocare anche noi a fare i detective, l’attrice protagonista ci dona indizi e prove al fine di risolvere il suo personalissimo caso. Questo è segno di una ricerca introspettiva e di una dedizione importante, che però non lascia indietro il resto del cast. Infatti il giudice Cha (Mu-Yeol Kim), il giudice capo Kang (Lee Sung-min) risultano estremamente credibili e cristallini nella trasmissione dei valori del proprio ruolo. Maternità. Premura. Ambizione ma anche Violenza, Menefreghismo e Sofferenza nel caso di vittime e carnefici.
Essi sono l’altro lato del cuore pulsante di La giudice. Sebbene, analizzando a ritroso, si possa constatare una certa ripetitività nella rappresentazione dell’altro lato del tribunale, quello dei giudicati, la mentalità di queste giovani entità votate al crimine è quasi sempre tangibile, se pur manchevoli di una buona esplorazione dei rispettivi background. Ma alla fine, stiamo parlando di giovani criminali, e questi, “non cambieranno mai”. Il gioco per la loro delineazione è simile per ogni caso e tutto può esser riassunto in “niente è come sembra”. In questo campo, Occhio e Mente cercano di coordinarsi per manipolare lo spettatore e donare punti di vista pronti per esser ribaltati.
Le nostre conclusioni su La giudice
E siamo alla fine anche di questa recensione. La giudice è un’opera che vuole essere un punto d’incontro tra emozione e dinamismo. Un’alchimia che però perde d’equilibrio a mano a mano che si va verso la fine, senza fortunatamente perdere un comparto tecnico di buon livello. Talvolta sarete col fiato sospeso e il cuore riscaldato, altre rimarrete confusi e freddi dinnanzi ad un’emotività forzata. Non c’è una divisione netta, è un’alternanza continua che vi invitiamo a sperimentare. Per altre recensioni, continuate a seguire Kaleidoverse in ogni sua forma: Youtube, Instagram, Facebook e Telegram.
La giudice è un'altalena. Si spinge indietro verso i canoni della serialità: romance, suspence, emozioni e fiati sospesi; e si spinge in avanti verso un comparto visivo estremamente efficace e che talvolta giustifica l'eccessiva attenzione sul piano sentimentale insieme alle prove attoriali dei protagonisti, convincenti e credibili nei panni di giudici dall'etica differente.