Revisionismo. Questa è la parola d’ordine del cinema di oggi. Ogni figura è rivalutata, stravolta, messa in posizioni nuove, con missioni inedite per personaggi aventi determinate forme. Le strutture narrative di una volta, di cui oggi più che mai Hollywood si nutre, vengono leggermente modificate, trasposte in un movimento che mira all’inversione di marcia e al cambio delle caratteristiche dei conducenti. The Last Duel, The Northman, sono gli esempi maggiormente politici e legati a un revisionismo delle gerarchie passate. Come la mettiamo però nelle trasposizioni contemporanee, riguardanti le nostre di scale sociali? La polemica regna sovrana, soffocando la possibilità, sia per pubblico che per case di produzione, di instaurare un vero e proprio dialogo consapevole. Hustle entra in gioco in quest’ultimo campo, per fortuna.
Prendete Rocky, togliete le trombe, l’adrenalina dei tendini tirati al limite di Stallone o Weathers, trasformate quel desiderio di rivalsa feroce in un sogno dolce. Non parliamo di Million Dollar Baby, qui niente è così reale. Bisogna rimanere nel campo semantico del grido di ADRIANA! e sostituire a quella voce nasale un pianoforte, costantemente rivolto alla parte destra. Attenzione però, perché questa rimodulazione del “viaggio dell’eroe sportivo” non ha nulla da togliere all’impatto dei pugni di Drago: canestri che spaccano telecamere, una tensione di gioco diretta da Jeremiah Zagar in maniera impeccabile, creano un misto tra documentario e artifici della finzione che sanno, a modo loro, colpire. Il revisionismo in Hustle sta nel trasformare l’adrenalina in qualcosa di cauto e percepibile attraverso occhi di protagonisti-bambini.
Revisionismo e Realtà
Il discorso non finisce qui. Esiste un confine labile tra opera e realtà, oggi si fa a gara a chi riesce a scavalcarlo sempre di più, ma il concetto è un altro. Hustle vuole essere reale pur rimanendo nella sconfinata zona emotiva e tenta di attuare questo desiderio sfruttando viralità, cellulari, droni, reflex, ragazzini dai 12 ai 50 anni che cercano un proprio posto nel mondo, o tentano di mantenerlo. Il “mondo digitale” è stato protagonista di innumerevoli sequenze volte a testimoniare un netto cambiamento all’interno di una pellicola, andando a utilizzare il concetto di viralità come testimonianza della rinascita o del conseguimento di un obiettivo da parte dell’eroe. Ma, di nuovo, esiste un confine tra opera e realtà, e quando un’opera tenta di sorpassarlo, è facile scadere nella superficialità e nell’imitazione di ciò che paradossalmente viviamo tutti.
Così facendo il “social” diventa un banale espediente narrativo, senz’anima, privo della collettività astratta che si respira in quell’incredibile fenomeno che è la viralità. Hustle riesce a non essere tutto questo e a fare del nostro contemporaneo una parte fondamentale della struttura del film: da una parte revisionismo, dall’altra trasposizione fedele della realtà. Osservate come davvero Internet cambia le vite, le manipola, le media e le fa incontrare. Esiste però un altro fattore che tiene il sogno dolce ben saldo a terra, e per questo dobbiamo ringraziare la scelta di Adam Sandler.
Una scelta peculiare
Parliamo di Jeremiah Zagar, regista prescelto, al suo secondo lungometraggio dopo una carriera ricca di documentari, e si sente. La macchina da presa si fa vedere e percepire tramite inquadrature sfocate, nervose, zoom che fanno avanti e indietro, è una regia documentaristica che incontra perfettamente l’aspetto drammatico, e in alcuni casi comico, del film. Questo stile esplode durante le partite, in cui il fischio del pavimento del campo diventa quasi continuo nella mente di giocatori e spettatori; fiato sospeso ad ogni contatto e sguardo, immobilità generale non appena la palla abbandona le mani per finire nel canestro.
Inoltre, come si può ben notare dai titoli di coda, il cast è composto da una sequela infinita di giocatori professionisti in NBA tra cui spicca Juancho Hernangomez, nei panni del co-protagonista Bo Cruz. Questo rende Zagar, artista abituato a gestire personaggi extra-cinematografici, una scelta peculiare. E a proposito, è il momento di scendere nel dettaglio dei rapporti, specialmente quello tra manager e talent di Stanley (Adam Sandler) e Bo.
Rocky e Hustle
Se vogliamo continuare l’analogia, potremmo forse parlare di Mickey e Rocky, con una differenza sostanziale: il mentore non è un fallito. Non è colui che vuole rivedere le sue gesta passate, magari bruscamente interrotte da un infortunio, negli occhi e nelle azioni del suo pupillo. Stanley vuole essere un allenatore e non più un talent scout. In entrambi casi, egli estende se stesso alla ricerca di quell’amore verso lo sport che solo lui sembra possedere. Unire l’aspetto analitico a quello strategico, diventare parte pratica, e al contempo, in ottica più concreta, abbandonare quella vita fatta di viaggi, di lontananza, di junk food in hotel a cinque stelle.
Bo proviene dalla strada, deve accudire sua madre e una figlia. Ambizioni accantonate per lasciare il posto alla sopravvivenza, ma nonostante tutto, la sua espressione emana una tenerezza tipica di un bambino al Madison Square Garden. Non vi è, data l’inesperienza dell’attore, una grande dote espressiva e versatile, ma quella timidezza, quel suo essere impacciato, mai sfrontato, bastano a generare un rapporto che scalda anima e corpo. Rocky sfoga la sua incapacità di stare al mondo tramite barzellette e un fluido di parole infinito, Bo trattiene e cerca di sputare tutto sul campo, dove, nonostante la forgiatura dai campetti di quartiere, si mostra spesso debole, inerme. L’eroe è un talento che non esprime mai rabbia, anzi, è vittima di echi del passato che palesemente non gli appartengono più. Lo sport quindi ancor prima di essere sudore e denti stretti, è una fragilità da combattere, è una sensazione interna.
Le nostre conclusioni su Hustle
Godetevi l’hip-hop, la cassa dritta, la comicità immortale e leggermente più matura di Sandler, il racconto dell’ambizione, della tenacia e della fatica. Poi, lasciate che il film vi faccia riposare gli occhi, sfocando un po’ lo sfondo, facendo suonare le note di un pianoforte, enfatizzando gli occhi e le grida del mentore che guarda il suo pupillo, finalmente libero dalla tensione e nel pieno del sogno, una transizione fade-to-white vi trasporterà all’apice di questa atmosfera onirica. Adrenalina cauta, questo è il più grande risultato di Hustle, l’originalità di un racconto di questo tipo.
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Hustle si immette nel movimento revisionista andando a toccare il classico schema del "viaggio dell'eroe sportivo" andando a trasformare il sudore e la fatica in qualcosa di maggiormente introspettivo, pur mantenendo un occhio di riguardo all'adrenalina che genera e alimenta il sogno. Un sogno definibile "dolce", poiché figlio di un rapporto che anche nella rabbia, sfocia nella tenerezza più assoluta, che anche nella sequenza di rivalsa, è accompagnato dalla leggerezza di un pianoforte. È un progetto che coinvolge una grande mole di attori non professionisti e che grazie alla regia documentaristica di Zagar si integrano in maniera perfetta nel contesto quasi onirico, e governato dall'ambizione, dell'opera.