Questo non è un biopic. Elvis Aaron Presley non è l’unico protagonista. Siamo abituati, da Bohemian Rhapsody in poi, a osservare registi eclissare il proprio stile in funzione di un racconto epico, che miri a descrivere in forma mitologica l’artista di sorta, pur dichiarando quanto è stato interessante analizzarne la vita fuori dai riflettori. Il biopic è arte descrittiva, o almeno così viene percepita. La fedeltà, l’”accuratezza storica”, sono i valori fondanti di gran parte di questi lavori. Il cinema, nella sua potenzialità, nella sua concezione di “strumento”, viene spolverato e messo in opera giusto quando arriva il momento di mettere una traccia audio, far urlare il pubblico, mettere in sequenza inquadrature dell’eroe e inquadrature dei cari amici e nemici, stupiti, delusi, indifferenti. Solo in quei momenti il film esplode perché finalmente diventa tale.
Adesso invece pensate a un film in cui l’esplosione è continua. L’adrenalina della musica è infinita e la sua direttrice d’orchestra è un regista dallo stile inconfondibile e in perfetta commistione col suo protagonista. Lasciate perdere i glitter, l’oro e la brillantezza, questa è superficie, quella che ha camminato Elvis e su cui cammina oggi Luhrmann. Qui si parla di giocare con i propri strumenti, divenirne padroni, unirli e farne una cosa sola: la propria arte. Elvis non era solo voce, era anche movimento incontrollato, spiritico. Baz Luhrmann non è solo un regista, egli mette in scena il cinema. Fa cinema nella misura in cui manipola il conglomerato di arti e mostra, nella maniera più eccentrica possibile, il suo risultato. Questo è l’Elvis di Baz Luhrmann, e se è il film più accurato sul suo conto, è perché si assomigliano terribilmente.
Elvis non è l’unico
Elvis è un’opera in due atti, dal confine spesso e che probabilmente provocherà una spaccatura d’opinioni. Ciò che segna il cambiamento è la maturità del personaggio in questione. Dal confusionario, dinamico e fantastico primo arco giovanile, si passa a una tranquillità malinconica, se non disperata, del secondo, e, giusto per rimarcare il punto in maniera metaforica, è proprio il cinema che segnerà questo passaggio. Ad accompagnare l’intero amplesso, le note suonate e cantate per gran parte dallo stesso Austin Butler. Qui, Elvis manda il suo messaggio più importante, che completa la missione di fotografare l’America di quegli anni.
La musica è di tutti, nello spazio e nel tempo, e lui, il “Re del rock’n roll”, non era di certo l’unico. Bianco, in un quartiere di neri, assorbe la profanità di cui quella comunità è stata sempre additata, e soprattutto apprende la capacità di riformularla in qualcosa di benefico. Poi la sorpassa, abbracciando il sacro, il gospel, lo spirito, creando un legame indissolubile con quel modo di vivere, di crearsi la libertà tra le secchiate d’odio, rappresentato anch’esso in maniera sopraffina. La fotografia di Mandy Walker ingabbia quest’uomini di potere nel buio delle loro affermazioni e non fa mai posare la luce su di loro. Essi sono i villain dell’uomo che si è immaginato l’eroe per cento volte, e che pur fino in fondo aveva il dubbio di esser dimenticato.
Opere tentatrici
E di villain ce ne sono parecchi. Tra questi, colui che narra la storia e che rivolge ogni sua frase agli spettatori, del passato o del futuro non importa, egli arriva perfino a incolparci. Tom Hanks, nei panni di Tom Parker, storico manager del cantante, è il più approfondito, sfaccettato, tanto da instillare il dubbio sulla sua natura. È un gioco di sguardi quello tra lui e il suo pupillo che rende la sequenza iniziale magnificamente epica e adrenalinica, e il secondo arco drammatico e in tensione. Le incredibili prove attoriali di Butler e Hanks vengono costantemente alternate, in maniera più o meno frenetica a seconda del momento, non facendo mai mancare il contrasto necessario, la suddetta esplosione continua. Il sudore di Elvis è l’emblema della dedizione e perdizione. Il bastone e il grasso mento del “Colonnello” trasudano avidità e costrizione.
Un uccello nato senza zampe, costretto a volare per sempre, legato a doppio filo con una società vogliosa di liberarsi da ogni tipo di catena e ancheggiare sopra canoni sociali stringenti, che mirano ad avere la meglio sull’irrefrenabile stimolo erotico, deportato e segregato da guardie della moralità in giacca e cravatta. La cosa migliore che Luhrmann decide di mostrare, è che lo stesso Parker non è attirato dalla vocalità di questa nuova leva sbucata dal nulla, ma dall’effetto ipnotico e rivelatorio che creano quei movimenti di una bestia incontrollabile e affascinante. Elvis, ma anche Elvis-opera, sono un impatto intimo, arrivano alla radice più nascosta e pudica dell’uomo e della donna. E fanno paura. Alla società, alla sacralità che adornava la famiglia Presley e non solo. Sono opere tentatrici, il frutto proibito.
Vie alternative
Cosa fa il diavolo tentatore? Risveglia qualcosa che deve rimanere dormiente. In questo senso il ritorno di Baz Luhrmann porta una ventata di stile, teatrale e abbagliante, a questo genere, affermando come è possibile tener testa e anzi collaborare con chi si vuole raccontare, anche se si tratta dell’artista solista più venduto al mondo.
Quanto all’amore, grande fulcro della cinematografia del regista australiano: Priscilla, interpretata da Olivia DeJonge, funge da scappatoia e ispirazione nel periodo buio del cantante. Certo, sentire in sottofondo un dolce violino, sulle note di Unchained Melody, mentre i due si avvicinano e stanno per piantare a terra un amore fondamentale per il futuro è avvolgente, ma siamo lontani dal pianoforte di Young and Beautiful di Gatsby, e da quella poesia che era l’incrocio tra Maguire e Di Caprio nel racconto di quel bacio. In questo senso Baz Luhrmann tira il freno e allontana l’amore romantico dalle sue priorità. Verte sull’ossessione del già citato incrocio tra Hanks e Butler e imposta quasi tutta l’opera sulla frenesia delle sequenze automobilistiche tipica del suo scorso film.
Le nostre conclusioni su Elvis di Baz Luhrmann
Veniamo a questo secondo arco. Calmo, riflessivo, fuori dal palco si osserva un’altra persona. Si spezza la continuità dinamica e adrenalinica e si intraprende un processo di maturazione mirato a esplorare le condizioni psico-fisiche del personaggio. Considerate la sensazione di scendere da un’ora e mezza di montagne russe e cominciare a rifamiliarizzare col vostro corpo, ancora in balia del tremolio. Se prima quasi non c’era bisogno di raccontare una storia lineare, ma semplicemente mostrare una serie di valori e dinamiche, adesso sembra quasi infiltrarsi un bisogno di tornare a una struttura classica. Il tutto è perfettamente giustificato dai demoni che pervadono un ormai più che adulto Elvis: “take us home” gli verrà chiesto a un certo punto. Ci si guarda indietro e si comincia a fallire, a sbagliare e a farsi mangiare dall’ossessione.
Insieme al suo protagonista, il film smette di manipolare se stesso e comincia a diventare intimo, stavolta nell’accezione classica, quella che mira a descrivere un rapporto isolato, potente, percepibile con ciò che ha raccontato e con chi sta raccontando. Elvis è un’opera che risveglia la capacità d’esposizione e d’estroversione cinematografica, manovrata dalla personalità perfetta, inquadrando il soggetto perfetto. Per altre recensioni, continuate a seguire Kaleidoverse in ogni sua forma: Youtube, Instagram, Facebook e Telegram
Elvis è l'artista e il suo regista. Un connubio di due personalità che espongono tutta la loro capacità di essere ciò che vogliono creare, generando un racconto che per la prima parte va a definire una serie di emozioni, azioni, dinamiche, senza introduzione. Un turbinio di sequenze, incontrollate, quasi quanto i movimenti del cantante, e pur estremamente precise nella narrazione. È un quadro dell'America dello sfruttamento e della segregazione, ma anche dell'estetica e dell'erotismo, creando uno scenario in cui il regista australiano sguazza e crea ininterrottamente. All'adrenalina del primo atto si sostituisce l'intimità del secondo, che abbandona per un attimo il fascino per abbracciare l'umanità in modo diverso, più cauto e malinconico. Uniti insieme, questi creano un concerto, liberatorio, bello per occhi e mente.