Una delle cose che si sentono dire, guardando serie e film crime, è che i crimini compiuti dagli attori sul set sono fin troppo efferati per essere reali. Insomma, è intrigante guardare i nostri paladini dare la caccia a killer dall’intelletto labirintico, ma le possibilità che simili pensieri e azioni possano essere venir messe in pratica nella vita reale… no, è totalmente impossibile. Quale mente malata lo farebbe? La ragazza nella foto, docufilm uscito su Netflix il 6 luglio, risponde a questa domanda senza mezzi termini.
Il male esiste – è una cosa risaputa, non dobbiamo certo dirvelo noi – ma a volte assume delle forme talmente contorte da risultare di difficile elaborazione per le nostre menti. Spesso ci chiediamo il perché di simili nefandezze, e tutto quello che otteniamo in risposta è il silenzio, che fa un po’ da giudice e un po’ da giuria a fatti scabrosi e difficilmente immaginabili. Messi così di fronte alla nostra ingenuità, le vicende di La ragazza nella foto colpiscono come una serie ben assestata di pugni nello stomaco e ci lasciano boccheggianti di fronte allo schermo.
È accaduto davvero
Il film è un documentario e ha come obiettivo quello di fare chiarezza sulla storia di Tonya Hughes, una giovane ragazza che viene ritrovata in fin di vita sul ciglio della strada, il cui vero nome rimarrà un mistero per quasi trent’anni. Trasportata all’ospedale, vi morirà poco dopo. Fin qui, in un certo senso, non vi è nulla di strano: la ragazza sarà stata investita da un pirata della strada. Eppure, questo è soltanto l’inizio della scia nera che guiderà lo svolgersi del film. Una scia che parte sì da Tonya, ma che va a finire in un luogo molto più oscuro.
Il caso di Tonya Hughes è stato uno di quei casi che sono rimasti in sospeso negli archivi del FBI per tantissimo tempo. E, se oggi possiamo parlarne qui, è grazie soprattutto alla tenacia e alla testardaggine di un gruppo di persone – a volte nemmeno collegate tra loro – che sono riuscite a non far spegnere la candela che illuminava il volto giovane e radioso di una ragazza andata via troppo presto e senza alcuna spiegazione apparente. Il desiderio di ricercare la verità, unito a quello di rendere giustizia alla vittima, sono alla base della realizzazione di La ragazza della foto.
Le fotografie e la cristallizzazione di attimi
Il titolo già di per sé annuncia l’importanza del mezzo fotografico all’interno del film. La fotografia ricopre infatti un ruolo fondamentale: è attraverso gli scatti che si ricostruiscono buona parte delle accuse nei confronti di quello che si rivelerà essere poi il colpevole della vicenda, ma la sua funzione non si limita a inchiodare prove schiaccianti di colpevolezza: le foto che vengono mostrate nel corso della pellicola, infatti, rappresentano molto spesso anche momenti di felicità incapsulati su carta.
È il ruolo stesso del mezzo fotografico che si rivelerà una delle chiavi di volta per avanzare nel dipanare la matassa dello strano e macabro caso di Tonya. La fotografia, infatti, imbalsama i corpi raffigurati salvandoli dallo scorrere del tempo, li immortala in attimi per sempre congelati. Questa sua peculiarità ci è tanto cara, perché espone al mondo ciò che si cela dietro un paio di occhi color del cielo nella foto che forma la locandina del film. Gli investigatori sarebbero riusciti ugualmente a raggiungere un punto soddisfacente nella ricerca della verità senza le foto? La risposta non può che essere: no.
Un vaso di Pandora che nessuno vorrebbe aprire
Una delle verità che emergono durante la visione di La ragazza della foto è la consapevolezza che mai nulla è come sembra. E questa consapevolezza porta lo spettatore a dubitare fin da subito di quello che vede, di quello che sembra, e a ragione. La morte di Tonya, infatti, come si evince già dal trailer, è ben lontana dall’essere un incidente. E, mentre i sospetti sulla sua dipartita si muovono come un cumulonembo minaccioso verso il marito, Clarence Hughes, il vaso di Pandora che era strettamente sigillato dalle labbra serrate della ragazza si scoperchia, lasciandoci attoniti.
Ciò che vi si trova dentro è indicibile: violenza su violenza, abusi, sangue, morte, bugie, inganni. E, sul fondo, al posto della Speranza del mito greco, un bambino piangente: la seconda verità. L’infanzia ha infatti un ruolo centrale in tutta la vicenda – quella di Tonya, quella del figlio Michael, quella di Clarence. Tutto parte, in fondo, dall’infanzia. Non è il modo in cui veniamo cresciuti a determinare in larga parte ciò che saremo da adulti? Ma è davvero così, o ci sono altre dinamiche che sfuggono alla percezione? Si può essere diversi – migliori – degli esempi che ci hanno educati?
L’eredità spirituale di La ragazza nella foto
La risposta all’ultima domanda per noi è: sì. È quello che ci insegna la storia di Tonya: malgrado la ragnatela tessuta con cura dal suo carnefice la tenesse stretta, la ragazza è riuscita a distribuire amore, amicizia e gentilezza intorno a sé. E questo si evince dalle testimonianze di tutte le persone che le hanno voluto bene: ex compagni di scuola, ex colleghe di lavoro, persino persone che non l’hanno conosciuta direttamente, ma che ne hanno assorbito le vibrazioni positive. È merito anche di questa sua propensione all’aiuto e alla comprensione che oggi Tonya può avere pace.
Ci sono, però, domande alle quali non si può rispondere. La prima, quella che si stampa sullo schermo ormai nero dopo aver visto il film, è perché? Sì, Tonya, anche se nella morte, ha avuto un vero e proprio riconoscimento – dopo anni e anni finalmente si è potuti risalire al suo vero nome, Suzanne Sevakis, e alla sua vera storia. Eppure, la domanda permane. Perché dedicare la propria vita a rendere un vero e proprio inferno sulla terra quella degli altri? Quali meccaniche perverse si celano davvero dietro le parole di un condannato a morte? Ancora una volta, il silenzio è l’unica, assordante risposta.
Le nostre conclusioni su La ragazza nella foto
Se l’obiettivo dello spettatore è farsi un giro nella mente di un assassino, rimarrà deluso. Il punto della pellicola, infatti, non è tanto esaltare le gesta di un narcisista patologico con le mani sporche di sangue quanto ergere un monumento spirituale alla memoria di Suzanne Sevakis e di suo figlio Michael. Il messaggio vuole essere di pace e di riconoscimento della vita di una persona che – ne sono sicuri tutti gli intervistati – avrebbe potuto dare al mondo tanto, se fosse vissuta abbastanza.
Un altro messaggio che il film trasmette è indirizzato anche verso noi spettatori; è un invito a denunciare, sempre e comunque, soprusi di questo tipo, e noi speriamo che questo avviso arrivi a più persone possibili. Se siete arrivati fin qui e vi è piaciuta questa recensione, fatecelo sapere con un commento, qui su Kaleidoverse o sulle nostre pagine social. È importante raccontare storie del genere, perché hanno sempre qualcosa da insegnarci. Quindi, se ancora non avete visto il film, speriamo di avervi invogliato a guardarlo.
La ragazza nella foto è un memoriale alla vita turbolenta e violenta di Suzanne Sevakis. Si tratta di un tortuoso cammino lungo più di trent'anni in cui sono proprio le fotografie a rappresentare le svolte di un caso di scomparsa che cela dietro di sé un sentiero completamente lastricato di reati e abusi. La narrazione è agile senza far perdere l'orientamento ad uno spettatore desideroso di raggiungere la fine della strada, per porgere un commiato rispettoso e dovuto ad una delle vittime della malvagità altrui. Un docufilm che sa essere toccante e commovente senza per questo sfociare in un'esaltazione del dolore e della violenza, e che rispetta fino in fondo la sete di verità e di giustizia di coloro i quali hanno dedicato la propria vita a far sì che quelle di Suzanne e di suo figlio Michael non venissero dimenticate.