Raccontare Fakes è un’impresa un po’ complessa, dato che la serie sembra non voler dar spazio nemmeno alle sue protagoniste Zoe (Emilija Baranac) e Becca (Jennifer Tong), poi raggiunte da Tryst (Richard Harmon), per farlo. Questo, forse, è il focus dell’intera serie: il racconto. Non dal punto di vista della trama, a cui accennerò fra poco, ma del metodo con cui la serie comunica il suo contenuto, che forse è la cosa che rimane più impressa in assoluto a visione conclusa o addirittura durante essa. Fakes è disponibile dal 2 settembre 2022 su Netflix.
Premesse inaffidabili
Per quanto non sia nulla di nuovo o degno di nota per sé, la serie di David Turko fa forza proprio dell’espediente del narratore inaffidabile creando un profondo senso di intimità con i suoi personaggi. Quando durante il primo episodio ci troviamo davanti a momenti un po’ smorti, il pensiero corre (non intrattenuto) e ritrova i problemi di ritmo di “Come vendere droga online” (Philipp Käßbohrer, Matthias Murmann, 2019), e intuisce la pretesa di un racconto di livello un po’ più alto simile a “Copia originale” (Marielle Heller, 2018). La tentazione di non proseguire, temendo di correre dietro ad un prodotto già visto, è forte.
La prima puntata si apre con la polizia che fa irruzione in una festa a cui partecipano anche le due ragazze protagoniste, arrestandone nell’immediato una. Allora Zoe, rivolgendosi allo spettatore, confessa di essere all’apice di un impero di documenti contraffatti. Zoe e Becca sono due amiche d’infanzia al liceo, una silenziosa, rispettosa delle regole e per certi versi noiosa, l’altra una scalmanata festaiola senza speranze. Per guadagnare qualche soldo, Zoe accetta la proposta di Becca di produrre documenti d’identità falsi, fattale quando scopre che si è autoprodotta una tessera falsa per la biblioteca per poter studiare gratis. Veniamo poi introdotti a diversi altri personaggi, fra cui Tryst, spacciatore di droga a cui Becca fa riferimento per la vendita di questi falsi.
Dopo aver mostrato una serie di pochi eventi chiave, fra cui un attacco di panico derivante dalla richiesta inaspettata di un compagno di scuola inerente a questi documenti, la narratrice ci riporta al presente, sottolineando come lei abbia solo accettato la proposta dell’amica, per cui è stata punita. Con non poca fatica si giunge finalmente al colpo di scena, se così possiamo chiamarlo, quando Becca rivela che quanto narrato finora era una versione scorretta nei suoi confronti. Rinnovata la spinta, grazie a questa inversione di marcia, e la curiosità di chi fino a quel momento aveva patito la storia di Zoe, inizia la seconda puntata in cui tutti gli eventi narrati ricevono una seconda chance e questa volta notiamo qualcosa: col cambio di punto di vista, non cambiano solo gli eventi ma anche i personaggi.
Uno sguardo passivo agli intenti
Prima di elaborare su quest’ultimo punto e giungere a un paio di conclusioni, facciamo un rapido sguardo al linguaggio visivo della serie. Con una fotografia classica da serie young adult, Fakes è di facile comprensione e si segue senza affanno, ma forse più che di una fotografia vendibile, parlerei di una fotografia versatile, che si presta alle diverse istanze in cui la narrazione rompe la quarta parete, come durante i mini tutorial criminali in cui Zoe spiega come falsificare una carta d’identità statunitense. Rimane molto impressa la sequenza in cui lei si lamenta dell’ologramma presente sulle tessere, e nel mentre che descrive l’effetto 3D la fotografia si storce per rendere esempio all’idea di immersione. Sono accorgimenti molto piccoli, ma che nel corso della serie la rendono più fruibile e semplice da digerire, dando anche una chiave di lettura ad altre scene future, come un grande litigio tra Zoe e Becca, in cui la fotografia solitamente stabile inizia a traballare, ricordandoci quel sensore di “realtà”, di “tridimensionalità” di cui la sceneggiatura vuole convincerci.
Il linguaggio messo in bocca ai personaggi, invece, vuole rievocare quello dei giovani… di dieci anni fa. Nei momenti di tranquillità i personaggi, in particolare Zoe e Becca, comunicano tramite modi di dire e immagini (a volte meme) che mischiano in maniera eterogenea la cultura dei famigerati millenials a quella dei ragazzi di oggi, che contano sempre più alpha che gli indecisi e confusi gen Z. Per entrambi i gruppi, il tentativo risulterà però goffo. Forse la prima cosa su cui queste due generazioni si troveranno d’accordo. La più grande caduta di stile, probabilmente, è il riferimento a “Il Gioco” (che a tradimento, come appena fatto, la serie fa perdere a chi ne conosce le regole). Riferimento che probabilmente nel 2015 mi avrebbe fatta impazzire, nel periodo della difficile scissione tra gli spazi dei millenials da quelli della gen Z, ma che oggi mi provoca solo imbarazzo per chiunque abbia scritto alcuni di questi specifici dialoghi.
Ultima nota, è l’attenzione rivolta alla distanza culturale tra Becca e gli altri personaggi, l’alienazione che questa può provocare quasi ipnoticamente, il fascino delle proprie radici. Becca, essendo discendente cinese in America, si ritroverà ad affrontare il passato della sua famiglia e la serie propone un episodio dedito estremamente elegante, che toccherà sicuramente nel profondo chi discende da altre culture da quelle in cui sono cresciute. L’episodio è uno di quelli diretti da Joyce Wong, e si sente la passione e l’amore che un immigrato di seconda generazione prova per la propria storia: un po’ di distanza, incertezza, glorificazione. Fakes fa di tutto per sembrare, ironicamente, reale. Queste impostazioni ne sono un po’ la riprova, che accompagnano uno spettatore confuso per tutta la durata dei dieci episodi. Uno spettatore che cerca di farsi un’opinione, di decidere da che parte stare. Perché la struttura dell’opera è tale da obbligarti a scegliere una parte, a schierarti. Per tutta la durata della sua immersiva narrazione, la serie prova con ogni espediente a rendere più cruda la vicenda, cerca di instillare un senso di pietà e di agitazione. E ci riesce. Come?
Il potere di un pettegolezzo
Fakes alterna ogni episodio in questa maniera: il primo segue il punto di vista di Zoe, il secondo quello di Becca, il terzo di nuovo quello di Zoe e così via, eccezione fatta per l’episodio cinque che segue Tryst (lo spacciatore precedentemente citato) e il ciclo ricomincia da capo, fino al decimo in cui i punti di vista delle due niste protagoconvergono, rivisitando l’arresto delle ragazze. Così facendo, ogni puntata sembra sconnessa da quelle precedenti, al punto di farti dimenticare a volte le incongruenze che possono derivarne (fino a rimanere stupiti di cose che già si sapevano).
Di fatto, ogni episodio è una chiacchiera indisponente tra il suo narratore e la vittima che sta ascoltando (ancora, lo spettatore). L’intimità che questo stratagemma crea è quasi disagevole, come l’essere “incastrato” fra due amici a cui vuoi bene e a cui non riesci a recriminare niente a nessuno perché ti puoi affidare solo alle loro versioni, con l’eccezione di Tryst che alla fine ne esce come unico santo in tutte le reiterazioni. Lo spettatore diventa un pozzo in cui la rabbia di Zoe e Becca riecheggia senza possibilità di replica (e pure avesse potuto rispondere, con che sfrontatezza?). È difficile rendere l’idea senza fare paragoni con situazioni mondane ma reali vissute da più o meno chiunque. Alimenta la sete di gossip di chi guarda e la drena al contempo.
Introduzione a Fakes
Addentrandoci nella prima puntata, conosciamo la genesi raccontata da Zoe, e la prima sensazione che va combattuta (oltre alla strategica noia che costruisce la cornice del suo personaggio come pensato dagli autori in questo primo periodo) è quella dell’impossibilità di connettere con le due protagoniste, apparentemente codipendenti. Infatti, dopo la prolessi dell’introduzione, assistiamo a Zoe che usa una tessera falsa per prendere in prestito dei libri, chiamata poi da una Becca ubriaca che ha bisogno di essere raccattata da una festa. Nel viaggio verso casa quest’ultima nota la tessera e le chiede se l’ha fatta lei, complimentandosi per la fattura. Alla risposta affermativa insiste affinché le produca una carta d’identità falsa. Questo dettaglio servirebbe da prova del fatto che la mente dietro alla produzione che nascerà di documenti tarocchi sia, in effetti, Becca, che incalza Zoe, piccola ed inesperta bambina del quartiere, già troppo impegnata a proteggere la madre dal fratello Jason che sembrerebbe approfittarsi di loro rubando dai loro risparmi. Quando Becca le propone di mettere su un business tramite un ragazzo che conosce, Tryst, per duecento dollari a carta falsa, come potrebbe rifiutare?
Il titolo “Fakes” fino alla fine pare voler richiamare come vengono chiamati in inglese le produzioni falsarie, una didascalia scontata e sfuggevole calzante per quella che si prospetta essere la storia. Eppure, pochi secondi dai primi titoli di coda, Becca si intromette e denuncia come false le accuse rivoltele, insistendo che quelle raccontate a quel momento siano tutte “stronzate”. Allora quella singola parola, “Fakes”, ingrassa, farcendosi di altre chiavi di lettura e sta allo spettatore decidere se ciò che seguirà da lì in poi sarà la storia dei documenti falsi o delle storie false che si contrastano episodio dopo episodio, inseguendo un punto di convergenza che non sembra mai possibile stando alla premessa grandiosa che era stata promessa. Ma questa, alla fine dei conti, è il racconto di due adolescenti, quindi questa premessa non poteva che essere più grande della realtà poi esibita.
Amiche immature e incomunicati
La versione di Becca inizia con una sua presentazione, più genuina e triste, per certi versi, di quella di Zoe. Becca infatti è figlia di una ricca famiglia cinese emigrata negli Stati Uniti d’America, e in quanto tale deve rispondere a certe aspettative sociali, deve ottenere certi risultati per essere accettata dalla sua famiglia, che ritiene ipocrita perché perfetta solo di facciata; viene in particolare affrontata la relazione extraconiugale del padre, mentre la madre lavora lontano da tutto il nucleo. Immediatamente è chiara la difficoltà di raccontare di questa dinamica, che non si presta all’immagine classica di “vittima”, non è facile da condividere come lo è quella di Zoe, rimane sullo stomaco perché se si ha la giusta sensibilità o si ha un passato in qualche maniera simile a quello della mora si comprendono le sfide della ragazza nel quotidiano, si riesce a leggere dietro la maschera percepita dalla ragazza durante la sua narrazione che da qui in poi diventa meno credibile e più spietata.
Becca non è una ragazza ubriaca che si diverte alle feste senza freni, lei si racconta come una persona responsabile e dimostra una grande vulnerabilità che Zoe non mostra né di sé né della compagna di merende. Diverse volte, durante i suoi episodi, sembra pure più affezionata all’altra di quanto non lo dimostri l’altra protagonista – la quale pare provare astio nei suoi confronti (sfociando a volte in ingenua misoginia internalizzata) – , raccontando episodi molto più toccanti tra le due e riferendo del rammarico nella consapevolezza che non entrambe le versioni racconteranno quei momenti. Becca rimuove ogni barriera tra storia e spettatore, crea un luogo dove le confidenze sono lecite e richieste, e attrae con molta più efficacia l’attenzione, tanto che negli episodi dell’altra ragazza piano piano la prima Becca viene sostituita da quest’altra Becca. Non è evidente se questa forza magnetica sia una pecca o un punto cardine di Fakes, questo ago che si sposta rapidamente rendendo la versione di Becca più “valida” e che corrompe quella di Zoe mano mano, ma sicuramente salva la narrazione favorendo il nuovo bias dello spettatore ormai protagonista tanto quanto gli altri personaggi, in quanto giudice.
Ovviamente entrambe cercano di deresponsabilizzarsi, di addossare all’altra colpe che a volte non è ovvio di chi siano effettivamente. Ma ciò che salta all’occhio è questo: la Zoe di Zoe è noiosa e fastidiosa, conoscendola si direbbe falsa, idealizzazione adolescenziale di se stessa; la Zoe di Becca è più tridimensionale e coinvolgente. Infatti, mentre Zoe nega od omette i problemi di Becca in larga parte per rendersi più innocente agli occhi di chi l’ascolta, a parti inverse Becca li riconosce e si arrende davanti a loro, pur non identificandone quasi mai le origini nella sua situazione familiare disastrosa (elemento che in realtà dà spessore al loro rapporto, evidenziando la magra comunicazione tra le due).
Emotività del giudizio
Questo valzer continua ogni episodio, rubando l’attenzione alla trama che si evolve introducendo sempre nuovi personaggi, sottintendendo continuamente sviluppi differenti in base alla versione a cui si sta assistendo in quel momento. Ne diventa il fulcro ed è difficile in certi momenti ignorare come Becca si glorifichi negli stessi momenti in cui Zoe la ridicolizza, portando chi guarda a chiedersi se Becca è una bugiarda narcisista, Zoe una sociopatica, od entrambe, od altro ancora, ognuna elevandosi a “quella matura”, fino a litigare violentemente quando le istanze si confondono concedendo allo spettatore un attimo di cruda genuinità. Punto di convergenza in cui una ventata di nudità emotiva mette in luce la vera protagonista di questa serie: l’autentica esperienza del pettegolezzo, in cui solo la rabbia e la nebbia mentale permettono di intravedere dell’obiettività.
Parlare di Fakes senza fare continui riferimenti a questa dinamica è praticamente impossibile, è ciò che la rende intrattenente fino alla fine. E non è ripetitiva, perché la sceneggiatura ha avuto la giusta intuizione vedendo in Tryst un pedone importante sulla scacchiera di bianchi e neri di questa serie: alla fine della corsa, in chiusura del primo arco, è lui il narratore. Viene posto sapientemente sotto i riflettori, scuotendo la formula in un momento quasi morto. Il quinto episodio è il momento in cui ancora una volta Fakes aggiunge un livello di lettura delle diverse versioni, umanizzando un personaggio fino ad allora terrificante, perché raccontato da sedicenni terrorizzate dalle conseguenze o disinteressate nella sua vita. E dopo aver scoperto come questo spacciatore sia, alla fine di tutto, un ragazzo senza prospettive e sogni concreti, che si aggrappa alla fluttuazione di criptovalute e richieste di mercato illecite, nella speranza di poter contribuire alla crescita della figlia infante, è impossibile non mettere ancora più sotto torchio le protagoniste.
Emotività della narrazione
Per quanto di primo acchito la versione di Tryst si potrebbe assumere sia più imparziale, in quanto terzo elemento narrante, tende in realtà alla versione di Becca. Questo sempre considerando un senso di sufficienza da parte del giovane uomo, che riconosce l’immaturità delle due e si erge sopra di loro in fatto di esperienza. Eppure dopo questo episodio le diverse versioni in realtà iniziano a sovrapporsi senza troppe contraddizioni, per lo più quelle che rimangono riguardano le intenzioni e le emozioni delle ragazze. Gli episodi di Zoe, infatti, diventano un’autobiografia infantile che però finalmente ritraggono Becca così come si presenta lei stessa, quasi confermando che nella prima metà il racconto di Becca fosse più onesto.
L’insieme di tutti questi girotondi rende il finale di stagione estremamente difficile da digerire. Fakes chiude infatti con un cliffhanger: la prolessi del primo episodio si chiude con Tryst colpevole di aver provocato l’arresto di entrambe. Se non fosse che Zoe e Becca non dovessero trovarsi lì, lui voleva proteggerle. Da chi? Dall’uomo con cui alle spalle delle ragazze Tryst fa affari usando il loro lavoro, a cui appartiene l’appartamento dove stampano i documenti falsi, lo stesso uomo che trascina le due lontane dalla polizia e ordina loro di sparare a Tryst. E senza sapere chi prenderà in mano la pistola o se lo faranno, si conclude frettolosamente e affanosamente Fakes, stagione uno. Ormai lo spettatore è amico o confidente di tutti i personaggi vittime di questa piega presa dalla storia.
Teatrale carreggiata di personaggi
Per quanto il fulcro di Fakes siano, ovviamente, Zoe, Becca e Tryst, ad aiutare la loro resa come personaggi umani, ci sono una serie di altri nomi che vale la pena citare. Per iniziare leggeri, Sally (Matreya Scarrwener). Sally, insieme a Sophie, viene assunta durante la seconda metà della serie per vendere documenti falsi, in particolare patenti. Esagerata parodia del “theatre kid”, viene introdotta come barzelletta. Presto però, diventa invece il problema che smuove lo status quo raggiunto dal business dei falsi, facendosi arrestare dopo aver dimenticato un ordine di patenti false sul bus, rilevato dalla polizia. Si unisce, come battuta finale, alle forze dell’ordine per concludere anticipatamente la custodia attuata nei suoi confronti.
Sophie (Mya Lowe) è l’altra dipendente del business, una ragazza bella, avvenente e capabile. È una persona seria e che prende a cuore lo spaccio dei documenti, ma ci tiene alla sua integrità e creerà conflitto quando si sentirà di non poter rispettare la parola data ai clienti a causa della lenta manifattura dei prodotti. A volte viene data indicazione di un possibile sviluppo romantico tra lei e Zoe, per ora inconcludente. In effetti, Zoe ha una piccola relazione durante la serie con qualcun altro, Clem (Wern Lee), l’ex fidanzato di Becca che Zoe crede fosse trattato con sufficienza da lei.
Vengono molto approfonditi i genitori di Becca, quasi come se si cercasse di giustificarli a tratti, di dare un motivo alla sua sensazione di inadeguatezza nei loro confronti; sono in una relazione a distanza aperta, fra l’altro, cosa che perplime la ragazza quando lo viene a sapere. La nonna, anche, viene ritratta, in loro contrapposizione, come una figura amorevole che si interessa delle nipoti. Infatti Becca ha una sorella, Isabelle (Emily Leung), con cui condivide la passione per i videogiochi e che alla fine della serie diventa la nuova appuntata per ereditare gli affari di famiglia, nonostante sia la secondogenita. Infine, Guy (Oliver Rice), uomo d’affari criminale che si intromette nel business di Zoe, Becca e Tryst, per la maggior parte della serie solo sullo sfondo, in quanto antagonista inizialmente solo di Tryst. Viene raffigurato come un sociopatico antisociale e violento.
Le nostre conclusioni su Fakes
Criticare Fakes è estremamente faticoso. È un prodotto complesso, che richiede l’attenzione dello spettatore e lo cattura con strategie subdole. Ma non è pesante, e questo è a suo vantaggio. La visione è piacevole e rapida. I suoi punti deboli diventano rilievo comico capaci di smorzare i momenti più intensi, ci si passa sopra senza fatica. L’espediente narrativo dei diversi punti di vista è interessante e rinfrescante. Si potrebbe fare la critica che il punto di vista di Becca è tendenzialmente quello favorito, ma nessun pettegolezzo ha due rivali apprezzabili nella stessa maniera. Sarà interessante osservare come verrà riadoperato nella seconda stagione, se andrà in porto. Per rimanere aggiornati sulle vostre serie TV preferite potete seguirci anche su Instagram, sui nostri canali Telegram e Youtube, oltre che ovviamente sul nostro sito.
Fakes dialoga in maniera, a volte naturale, a volte no, con lo spettatore. Gli chiede di trarre le nostre conclusioni sugli eventi raccontati dai personaggi, anche se a volte tende a mostrare favoritismi nei confronti di una versione piuttosto che dell'altra.
Una serie intrattenente che preme sul coinvolgimento istantaneo che si prova origliando un pettegolezzo, che riesce nel suo intento anche se non perfetto nell'esecuzione, spesso umanizzando i personaggi al punto tale che è impossibile non volersi schierare.