Halloween è da sempre sinonimo di paura, e la paura è una delle emozioni primarie che l’uomo possa provare. La paura presenta diverse sfaccettature, è complessa, è profonda. Timore, orrore, sgomento, panico, torpore, isteria: tutte queste condizioni psicologiche provengono dal terrore. Molti cercano di sbarazzarsene, altrettanti di sopprimerla, ma nessuno sarà mai davvero in grado di superarla. Allora perché molti bramano dalla voglia di provarla? C’è sempre quella malsana voglia di sfidare questa emozione, di mettere alla prova la propria psiche, di superarla e di viverci con essa. Tuttavia la paura ci aiuta anche a ricordare, a capire, a dimostrare perché bisogna imparare da questo sentimento. Bisogna imparare a ricordare ciò che è stato, ciò che è e che sarà Silent Hill.
Silent Hill è una serie che per troppi anni ha vissuto su delle montagne russe. Parliamo di una saga arrivata a sfiorare le stelle, a toccare il fondo, a risalire dall’abisso per annegare ancora. Per poi morire, scomparire lentamente e misteriosamente nella fitta nebbia che l’ha sempre accompagnata con affetto, la stessa che improvvisamente sta cercando di rimetterla sotto i riflettori. Con l’annuncio improvviso di Konami di qualche giorno fa e dell’evento allegato, la serie targata Konami rinascerà dalle proprie ceneri, mentre qui vi narriamo la storia di un horror tormentato, sfortunato ma calzante con la sua filosofia.
La nascita dell’incubo
Silent Hill, contrariamente a quanto dice la sua data d’uscita, nasce in realtà nel 1996, l’anno in cui Capcom lanciò sul mercato il primo capitolo di Resident Evil. Quest’ultimo fu fonte d’ispirazione per molte aziende che da lì in avanti avrebbero sviluppato diversi cult del genere horror: una delle case di produzione era proprio Konami. A quest’ultima infatti dava fastidio dover stare con le mani in mano mentre una sua concorrente si prendeva la luce dei riflettori. Nasce così nello stesso anno il Team Silent, un piccolo gruppo di sviluppatori con scarsa esperienza nell’ambito videoludico, ma con la completa libertà artistica. Nessuno riesce a dar loro una chance di riuscita nel progetto, ma i membri continuano a conoscersi meglio, a lavorare in silenzio e ad avere un obiettivo comune: rivoluzionare l’horror da capo a piedi.
Mentre un certo Hideo Kojima cercava di prendersi la scena nel 1998 con il suo Metal Gear Solid, provando a scalzare un colosso come Resident Evil 2, il progetto di Team Silent stava cominciando a prendere piede. Silent Hill nasceva come la perfetta nemesi di Resident Evil: se quest’ultimo narrava un classico horror da blockbuster hollywoodiano designato per creare profitto, l’altro cercava di offrire al giocatore un’esperienza più intima e introspettiva, giocando con le sue emozioni tramite una trama avvincente e un tema forte da affrontare. Il tutto, senza far uso di soldati o umani con capacità sovrannaturali. Inoltre, la vastità dell’ambiente gioca un ruolo cruciale. Al posto di ambientare la vicenda nelle magioni infestate di classici come Clock Tower e Alone in The Dark, la vicenda si svolge in una misteriosa città situata nel Maine impregnata dal male assoluto. Nasce così Silent Hill.
Il quartetto del dolore
Un nuovo Dio
La prima avventura dello scrittore Harry Mason nella nebbiosa città trascina vorticosamente il giocatore in un connubio di oscurità e luce, mostrate in due ambientazioni opposte, ma allo stesso tempo complementari. Se nella città fantasma di Silent Hill vi è una nebbia quasi accecante, nella realtà alternativa (denominato Otherworld) la torcia del protagonista è l’unica fonte di luce. Qui Harry dovrà trovare la sua figlia scomparsa, e man mano scoprirà le sue vere origini mentre una setta cerca di usarla come mezzo per resuscitare una nuova divinità pagana.
Il primo “figlio” di Team Silent ha centrato nel segno, conquistando critica e pubblico grazie alla sfaccettata ambientazione e alle interpretazione dei suoi personaggi. Le scelte multiple per i vari finali (tutti non proprio lieti) rendevano l’esperienza più complessa, tanto da volerne fare in futuro due progetti paralleli. Il mondo si è accorto delle potenzialità di un titolo così ambizioso e rivoluzionario, ma al team di sviluppo non bastava. Nonostante il milione di copie vendute, i ragazzi di Konami volevano alzare l’asticella e sapevano di poterlo fare.
Nel nostro posto speciale
Ispirandosi al celeberrimo romanzo di Dostoevskij Delitto e Castigo, il capo progetto del team Hiroyuki Owaku ha l’obiettivo di narrare una tragedia pregna di amore, lutto, rabbia, depressione, dolore, senso di colpa e crescita. Il Team Silent ancora una volta prende il meglio del gioco su PS One e lo esalta ulteriormente, aggiungendo un cast di personaggi più complessi del suo predecessore e una trama ancora più fitta: in altre parole, il gioco targato Konami ha tutte le carte in regola per fare la storia non solo della storia videoludica, ma dell’intera storia del genere di appartenenza.
Il successo mediatico e commerciale che il già citato gioco Konami ha ricevuto ha permesso all’azienda nipponica di lasciare più libertà creativa ai suoi dipendenti. Grazie a un legame forgiatosi nel tempo all’interno dell’ambiente lavorativo, nasce così in pompa magna Silent Hill 2, un horror psicologico che fa ancora parlare di sé dopo 11 anni dalla sua uscita. Dell’intera vicenda straziante di James Sunderland ci si potrebbe scrivere un trattato, ma ciò che rende il gioco così speciale è il coraggio di trattare tematiche mature con schiettezza e lasciando completa interpretazione al giocatore, senza mai lasciare nulla al caso. Questo diventa il punto di partenza per mirare ancora più in alto, anche se, paradossalmente, cominciano a intravedersi le prime crepe.
Paradiso sulla Terra
Proprio qui il Team Silent comincia ad avere consapevolezza di sé, mettendosi a lavoro su due progetti paralleli: il primo è creare un’esclusiva Sony più “conservatrice” come Siren, l’altro è superare (o quanto meno eguagliare) il fascino di quel che aveva lasciato Silent Hill 2. L’unica soluzione possibile è cambiare completamente registro, comprese atmosfera e tematiche. Se nei primi due giochi la nebbia e l’atmosfera stessa della città erano parte fondamentale dell’esperienza di gioco, il terzo fa vedere l’altra faccia della medaglia sin da subito, mostrando i denti già dalle prime battute con una capacità tecnica invidiabile per le tecnologie dell’epoca.
Qui non c’è più nebbia, nessun mistero e silenzio, nessun luogo claustrofobicamente aperto, ma solo caos. Silent Hill 3 diventa da subito sinonimo di fracasso, oppressione, paranoia, pericolo e perenne oscurità. Ad accompagnare Heater Graham nel suo incubo c’è solo il giocatore, chiuso in gabbia dal gioco stesso. Non si sopravvive più in un ambiente ostile lasciandosi trasportare dalla vicenda dello sventurato protagonista, ma guadagnandosela tramite la conoscenza. Il sistema di enigmi si infittisce ulteriormente: per andare avanti bisogna leggere e interpretare (a volte anche in fretta), bisogna dare un senso a una folle storia dell’orrore, chiudendo un cerchio aperto col primo capitolo. A volte però è meglio non voltare pagina una seconda volta, e il team di sviluppo scoprirà presto il motivo.
Room 302
La sfortuna gioca un ruolo fondamentale in questo periodo in casa Konami: Siren non ottiene il successo commerciale sperato, nonostante i continui elogi da parte della critica specializzata; Silent Hill 3, al contrario, vive all’ombra di un colosso come il suo predecessore, nonostante l’ennesimo successo. Dopo la maledizione della famiglia Mason e dell’odissea Sunderland, si decise di optare per una formula che fosse più appetibile per il mercato occidentale, pur mantenendo l’intimità memorabile della serie. Vede la luce Silent Hill 4: The Room, un’esperienza che non vede più come protagonista la celebre cittadina del Maine, ma bensì la “propria” abitazione ad Ashfield.
La caratteristica survival horror viene accantonata: il titolo questa volta punta al realismo e a un approccio più action, sacrificando però l’atmosfera asfissiante, gli enigmi e l’iconica coltre di nebbia. Nonostante sia il titolo più sottotono dei giochi targati Team Silent, Silent Hill 4: The Room diventa il vero ultimo pinnacolo della serie, nonché ultima vera fatica dei ragazzi del famigerato team di sviluppo. Proprio come uno scherzo del destino, il tramonto di PlayStation 2 sancisce anche lo scioglimento di quell’affiatato gruppo di ragazzini inesperti che hanno raggiunto la maturità, così da prendere strade diverse. Da qui in avanti, Konami prova a investire su diversi team di sviluppo occidentali (e di conseguenza aprirsi ulteriormente al mercato occidentale) e di Team Silent ne rimane solo un lontano ricordo.
Decadenza, morte, rinascita
La discesa verso l’inesorabile comincia dal momento di confusione di Konami nel trovare una piccola realtà che abbia il coraggio di prendersi sulle spalle un’eredità così importante. Aiutati dalla pellicola dedicata uscita un anno prima, Climax Studios ha provato a far ripartire il tutto con il suo Silent Hill: Origins nel 2007, riscrivendo al meglio delle possibilità le origini della serie. Dopodiché, nel lavorare per un degno seguito, vengono consegnate le redini del brand ai ragazzi di Double Helix Games alla loro prima esperienza nello sviluppo di un gioco, sperando di ripetere il miracolo avvenuto ben 10 anni prima con il talentuoso studio ormai sciolto. Il seguito Silent Hill: Homecoming sarà l’unico a non affacciarsi al mercato nipponico, sarà criticato aspramente da critica e pubblico e quanto accade in seguito è storia.
La batosta ricevuta da Konami fa sì che quest’ultima torni sui propri passi, rimettendo al volante i ragazzi di Climax per provare almeno a ritornare sulla giusta strada. Con un remake ben realizzato del primo capitolo come Silent Hill: Shattered Memories, ridanno al brand nuova linfa vitale, ma ormai è troppo tardi. Arrivano altri titoli che di lì a breve rivoluzioneranno il genere (come Dead Space e Amnesia: The Dark Descent) e il gioco venderà poco più di 400mila copie. Un ultimo disperato tentativo viene dato all’acerba azienda Vatra Games con Silent Hill: Downpour, alla loro seconda esperienza. Nonostante le altissime premesse e i vari rimandi ai primi titoli, il risultato è una catastrofe: vendite più basse rispetto al suo predecessore, chiusura permanente dello studio e marchio registrato in coma farmacologico.
Hideo Kojima: croce e delizia
Dallo sbarco in occidente del brand Konami fino alla sua dipartita, la serie ha visto nascere ben tre giochi java per cellulari (la trilogia Orphan), uno per cabinato (The Arcade), uno per iOS (The Escape), uno per PlayStation Vita (Book of Memories) e un altro lungometraggio (Revelations 3D), e il punto più “alto” raggiunto in quel periodo lo tocca una remastered su PlayStation 3 del secondo e terzo capitolo. Nessuno vuole più sentir parlare lontanamente di Silent Hill. Silent Hill è ormai vecchio. È obsoleto. Nessuno ne ha bisogno. È diventata la carcassa in cerca di una dimora che nessuno vuol più dare. L’orrore ha trovato dei pilastri, ma lei non è tra questi. O forse qualcosa si può ancora recuperare?
Hideo Kojima e Konami hanno percorso strade parallele senza mai incontrarsi per davvero: il primo ha evoluto negli anni il suo estro, mentre la seconda ha lasciato strada spianata per permetterglielo. Per questo, come fosse uno scambio di favori tra amici, entrambi decidono di aiutarsi vicendevolmente per un preciso interesse: Kojima vuole affermarsi come sviluppatore videoludico autoriale; Konami vuole riaffermare Silent Hill come simbolo dell’orrore fatto a videogame. Entrambi, in parte, ci riescono, ma sembra che quella tetra città nebbiosa nasconda una maledizione più grande di quella presente nel suo universo.
P.T.: Piuttosto Turbolento
Come un fulmine a ciel sereno, nel 2014 compare sullo store online PlayStation un certo P.T., senza molte descrizioni o minuzie. Si mostra come un horror in prima persona pressoché claustrofobico e pressante (senza far uso di chissà quanti jumpscare) molto simile a Silent Hill. L’obiettivo è quello di esplorare i corridoi di una casa e scoprire i suoi enigmi, mentre i corridoi cambiano forma ciclicamente e le varie risposte (lasciate all’interpretazione del giocatore) si palesano dinanzi al protagonista. Dopo le sue circa due ore di gameplay, appare un breve assaggio di quel che sarà il gioco finito: c’è Konami, a capo del progetto c’è Kojima aiutato da Guillermo del Toro, come interprete c’è Norman Reedus e il nome completo sarà Silent Hills. Da allora, nulla sarà più lo stesso, ma non nel modo sperato.
Poco tempo dopo l’arrivo di P.T., cominciano a emergere voci su una certa tensione tra Konami e Kojima, quest’ultimo in fase avanzata di sviluppo dell’ultimo capitolo (incompleto) di Metal Gear Solid. Per circa due anni entrambi vivono da separati in casa e, immediatamente dopo l’uscita di The Phantom Pain nel 2015, vi sarà un report sul Nikkei il quale conferma la completa rottura del rapporto. Ciò comprometterà sia lo sviluppo del criptico Silent Hills che il resto del mercato videoludico nipponico: Konami proverà a campare di rendita per quasi un decade grazie a Pro Evolution Soccer (e il disastroso eFootball), gacha online e pachinko; Hideo Kojima proverà a rilanciarsi con il suo studio (dividendo critica e pubblico con il suo Death Stranding); Silent Hill invece diverrà puro cristallo, oggetto del desiderio tanto pregevole quanto fragile e ostico da maneggiare.
Il futuro di Silent Hill
19 ottobre 2022: evento Konami esclusivo su Silent Hill. Ceneri di un brand ora risorto da fenice con cinque diversi annunci correlati, di cui quattro giochi e un terzo film dedicato. Parte subito in quarta con il remake del secondo titolo del brand curato da Bloober Team con l’aiuto di due membri storici di Team Silent. L’evento continua con Townfall, indie sviluppato dai ragazzi di No Code e Annapurna Interactive ispirato vagamente a esperienze come Firewatch. Si frena il tutto con Ascension, un’esperienza metanarrativa simile a Black Mirror: Bandersnatch realizzato da Genvid e Bad Robot Games per poi chiudere in grande stile con “f“, effettivo seguito realizzato da Neobards Entertainment (gli stessi di Resident Evil 3 Remake) aiutati da Ryukishi07, acclamato scrittore delle serie novel “When They Cry“.
Si conclude così la vita turbolenta di un brand leggendario, una serie nata come falsa speranza divenuta cult, oggetto del desiderio divenuto maledetto, valorizzando il talento di inesperti sviluppatori per poi svilirne degli esperti. Ora è meglio chiudere il tutto con una piccola riflessione: oggi tutti sono in hype per l’ormai ovvio ritorno della saga, ma l’ultima volta in cui furono rilasciati così tanti contenuti correlati a Silent Hill nello stesso anno fu proprio nel 2012, data di morte apparente del brand. Quest’ultimo tentativo disperato di Konami sarà l’effettiva rinascita del brand o l’ultimo chiodo alla sua bara? Vi ringrazio per l’attenzione avuta finora, e per essere aggiornati a riguardo, vi invitiamo caldamente a seguirci sui nostri vari canali e su Kaleidoverse.it.