Se siete soliti trascorrere del tempo su Internet, avrete notato che da un paio di anni si è affermato l’uso dell’espressione cancel culture, tradotta letteralmente come “cultura della cancellazione”. Il termine cancel culture nasce negli Stati Uniti ed è figlio del dibattito sulla libertà di parola, da sempre molto caro ai media (e alla cultura) statunitensi. Al suo approdo oltreoceano, i confini di questo concetto si sono fatti ancora più vaghi di quanto non lo fossero per il pubblico americano.
In Italia cancel culture è diventato una sorta di termine ombrello, sotto cui ricadono concetti estremamente controversi come l’iconoclastia, la censura e la cosiddetta “dittatura del politicamente corretto”. Parlare di cancel culture è un’impresa assai delicata, quasi quanto maneggiare del tritolo. Abbiamo provato quindi a fare luce su questo fenomeno a partire dalle sue origini, con la speranza di aiutare i nostri lettori a inserirlo in un dibattito costruttivo.
Definizione e origini della cancel culture
Il vocabolario Treccani definisce la cancel culture come un atteggiamento di una determinata comunità, la quale richiede o determina il ritiro del sostegno nei confronti di una collettività o di un singolo individuo. Questa forma di boicottaggio viene solitamente esercitata a causa di atteggiamenti o affermazioni ritenuti offensivi e discriminanti, oppure politicamente scorretti.
Di cancel culture negli Stati Uniti si parla da anni. Il concetto di “cancellare una persona dalla propria vita per un comportamento sbagliato” viene introdotto nella cultura pop da una canzone degli Chic del 1981, Your Love Is Cancelled. Intorno al 2017 l’espressione assume l’accezione moderna a partire dal cosiddetto Black Twitter, una comunità informale composta da utenti afroamericani del social network. Parole come “You’re cancelled!” (“Ti cancello”) venivano dapprima rivolte (più o meno ironicamente) ad amici e conoscenti, per poi diventare virali venendo indirizzate a personaggi o enti pubblici.
Il caso J.K. Rowling
Negli ultimi anni, svariati episodi eclatanti di cancel culture hanno animato il dibattito pubblico, portandolo in alcuni casi a conseguenze estreme. Si pensi ad esempio a ciò che è accaduto all’autrice della saga di Harry Potter, J.K. Rowling. La scrittrice sarebbe stata “cancellata” in seguito a dichiarazioni percepite come transfobiche, che l’hanno portata a scontrarsi con la comunità LGBTQ+ su Twitter.
Dopo accesi botta e risposta con alcuni account, la Rowling è stata segnalata come transfobica dalla comunità queer del social network. La contestazione si è inasprita fino a generare conseguenze inaspettate: alcuni fan della scrittrice hanno postato video in cui bruciavano le sue opere, celebri attori della saga di Harry Potter si sono pubblicamente dissociati dalle sue affermazioni. È scattato così un vero e proprio boicottaggio di massa della scrittrice, il cosiddetto cancelling.
La cancel culture è un’ideologia?
Nel discorso pubblico si parla spesso della cancel culture come ideologia politica. Essa viene descritta come una forma violenta di progressismo sostenuta dalle nuove generazioni, e diretta verso figure o opere ritenute problematiche (indipendentemente dalla loro collocazione temporale). Tuttavia, dal punto di vista semantico, la cancel culture non è un’ideologia, bensì un fenomeno generato da un insieme di pratiche proprie delle comunità online, come il call-out e il cancelling stesso.
Fare call-out consiste essenzialmente nel segnalare un comportamento ritenuto offensivo, e richiedere a chi viene accusato di rispondere delle proprie azioni. È proprio l’erronea associazione di fenomeni come il call-out e il cancelling a generare perplessità riguardo presunte censure, più o meno legittime, richieste dalle comunità colpite. in un’era in cui l’informazione punta più alla quantità che alla qualità, inquadrare la cancel culture in un contesto preciso non è un’impresa alla portata di tutti. Ecco perché, purtroppo, da una semplice richiesta di responsabilizzazione a una presunta guerra ideologica il passo è breve.
La cancel culture in Italia
All’interno del dibattito pubblico italiano il termine cancel culture è stato spesso associato ai fenomeni più disparati. Spesso e volentieri assume i tratti di una “dittatura del politically correct”, che “non ci permette di esprimerci liberamente”. Le colpe di questo travisamento sono da ascrivere in parte a una strumentalizzazione di aspetti controversi della cancel culture, a opera dei media di destra. Tuttavia la causa principale è l’importazione errata di notizie provenienti dagli Stati Uniti. I media italiani si abbandonano volentieri al sensazionalismo, prerequisito del clickbaiting. Ciò li induce a importare notizie scorrette, decontestualizzate o inquadrate in maniera fuorviante. Inutile dire che l’intento originario della notizia sia spesso lost in translation.
In Italia non sono mancati veri e propri episodi di cancelling, primo fra tutti la vandalizzazione e la conseguente richiesta di rimozione della statua di Indro Montanelli. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi di call-out, e infuriano i dibattiti su parole o comportamenti offensivi da parte di personaggi pubblici. Nelle tavole rotonde delle TV italiane, negli editoriali dei quotidiani ma soprattutto sui social network si grida spesso alla “censura”. Eppure sembra che i soggetti vittima di una presunta censura progressista continuino a disporre di programmi e pagine per esprimersi liberamente. I linguaggi discriminatori continuano a essere tollerati dentro e fuori dai media, e la mancata decodifica del concetto di cancel culture non contribuisce a una risoluzione rapida del problema.
La cancel culture come termometro della sensibilità collettiva
L’acceso dibattito su ciò che è opportuno dire e fare è indice di un inequivocabile cambiamento della sensibilità collettiva, che oggi include punti di vista diversi da quello storicamente prevalente (bianco, maschile, cisgender ed eterosessuale). Un comportamento percepito come razzista, sessista o discriminatorio tenderà a non passare più inosservato. Ciò permette alle minoranze di ribaltare la narrazione di determinate questioni in modo democratico. Le incomprensioni sul concetto di cancel culture contribuiscono a impantanare il discorso pubblico in una lotta perlopiù simbolica e controproducente.
Dando al pubblico gli strumenti per comprendere le intenzioni (e soprattutto i limiti) della cancel culture, si evita la diffusione dell’idea che questo fenomeno sia un apocalittico programma di distruzione della cultura occidentale. In realtà la maggior parte delle pratiche relative alla cancel culture non chiedono all’emittente di cancellare il programma, ma danno allo spettatore la possibilità di cambiare canale. Questa disamina del fenomeno della cancel culture vi è stata d’aiuto? Scriveteci su Kaleidoverse o sui nostri canali social, dove pubblichiamo le ultime notizie in campo televisivo, cinematografico o videoludico. Se avete voglia di discutere più nel dettaglio di questo controverso fenomeno, troverete ulteriore spazio per il confronto nelle nostre community Facebook o Telegram.