“Non puoi impedire agli altri di fare ciò che vogliono, anche se non ha senso, anche se è pericoloso“. Alle quote più elevate, dove l’ossigeno scarseggia nel freddo gelido, nel cuore dei pendii intrappolati più ripidi del mondo, l’uomo entra in una zona di sopravvivenza dove, paradossalmente, gli avventurieri più appassionati e spericolati sentono la loro vita vibrare completamente all’unisono con il poteri della natura. È in questo mondo di straordinari iniziati che degli alpinisti solitari cercano di superare i propri limiti, con le sfide e i drammi che ne conseguono.
Perché scalare l’Everest? Perché è lì, perché è una balena bianca, perché è l’unico modo per sentirsi vivi. Una lotta interna che costituisce uno dei manga più famosi di Jiro Taniguchi e Baku Yumemakura. Uno dei temi di finzione più belli dunque, l’ossessione, portato sullo schermo da un paese che ha sempre avuto più successo che in patria. Ho avuto la fortuna di poter vedere La Vetta Degli Dei in anteprima grazie a Kaleidoverse, sono qui per dirvi se vale la pena o meno di vederlo. Il film arriverà su Netflix il 30 novembre 2021
Anni di lavoro per la riuscita di questo capolavoro
Patrick Imbert (vincitore del César 2018 del miglior film d’animazione con il suo primo lungometraggio The Big Bad Fox and Other Tales), il quale ha scritto la sceneggiatura con Magali Pouzol e Jean-Charles Ostoréro, puntava molto in alto, ma a immagine della feroce volontà dei due protagonisti del suo film e dopo lunghissimi anni di produzione, il regista è riuscito nella sua scommessa molto audace. Ci sono voluti dieci anni e una rigorosa scrematura delle sottotrame del lavoro di Taniguchi per arrivare a un film con un ritmo molto curato, che mantiene i diversi strati di storia e temporalità pur rimanendo fluido. È un lungometraggio che ha un approccio complesso, in modo particolarmente quadrato e limpido, dove dimostra con sorprendente maestria che un’opera d’animazione ambiziosa (sia nei contenuti che nella forma) può raggiungere perfettamente tutto il pubblico.
Bisognava immaginarlo, e soprattutto osarlo, questo incrocio tra due scuole di disegno, certamente agli antipodi, ma che tuttavia avevano delle cose da dirsi: la linea franco-belga, generalmente qualificata come “chiara”, e il manga giapponese, con il suo dinamismo grafico e il suo senso di divisione. Un perfetto terreno d’incontro come su un set nell’opera di Jiro Taniguchi, disegnatore dell’indimenticabile Quartier lointain, classe 1947, il cui realismo minuzioso e le risonanze proustiane non mascheravano la loro tendenza europea.
Una trama misteriosa e avventurosa alla stesso tempo
La storia segue le orme di due personaggi: Fukamachi, un fotoreporter con un amore per le montagne, e Habu Jôji, un alpinista di talento. All’angolo di un vicolo del Nepal, il primo crede di riconoscere il secondo, scomparso del tutto dalla circolazione qualche anno prima. Il filo che li unisce è un mistero che potrebbe rivoluzionare la storia della conquista del tetto del mondo: e se l’Everest fosse stato conquistato nel 1924 (e non nel 1953) da George Mallory e Andrew Irvine? Una piccola tasca Kodak Vest potrebbe contenere la prova, ma deve essere trovata, e per farlo, Fukamachi deve rintracciare Habu Jôji e anche capire perché è scomparso volontariamente.
Animazioni che ti lasciano senza fiato
La trama è avvincente e alimentata dai dettagli affascinanti della vita quotidiana di questi atleti, artigiani dell’estremo, che sono gli alpinisti delle quote più alte. In questa immersione fisica regnano il superamento mentale, i dubbi e le emozioni, tutto accentuato dalle abili tecniche di animazione di Imbert e del suo team (che include Gaëlle Thierry come direttore dell’animazione). Il 2D non è mai stato così bello. Mentre i personaggi stessi sono resi in modo abbastanza semplice, i loro sfondi lasciano senza parole, specialmente durante le salite. Le scene di Habu che si aggrappa al bordo di un alpeggio sono riprese da un brillante cielo notturno scintillante o delle montagne al tramonto, con le sfumature viola e rosa. Consiglio la visione su un grande schermo per questi momenti che catturano una fetta della bellezza della natura.Il film crea una dinamica affascinante dall’inizio alla fine. Questi uomini sono soli, soli di fronte ai loro impulsi di vita, e ancor più soli sui muri. Vivono insieme, si capiscono, ma la disciplina non è collettiva. Le strazianti salite di Habu sono descritte in modo straordinario, ricordando quelle dell’alpinista professionista Alex Honnold nel documentario inquietante ma ugualmente mozzafiato Free Solo. Parte del fascino di quel film derivava dai suoi soddisfacenti tentativi di tradurre ciò che spinge persone come Honnold a perseguire imprese pericolose.
Inquadrature mozzafiato
Sublimi anche le inquadrature di Taniguchi, il quale gioca con valori di distanza e angoli inquietanti, e sa provocare qualcosa di fisico, anche se lo si vede da lontano. Il freddo e le vertigini sembrano così reali, uno scenario del genere richiede anche un approccio naturalistico, dove i corpi sono sottoposti e le sensazioni sono riportate nel sound design. Per citare degli esempi, vediamo l’inquadratura ravvicinata di un personaggio meditabondo che si china su un ponte mentre beve da una scintillante bottiglia di birra, o una di una mano anonima che deposita una busta beige in una cassetta delle lettere rosso fuoco con i gialli e i verdi tenui di una città quasi addormentata sullo sfondo. L’immagine di La Vetta degli Dei è accompagnata da una partitura stupefacente, composta da Amine Bouhafa, che colpisce ovunque: rock, ambiente, free jazz. Un successo narrativo, grafico e sensoriale.
Le nostre conclusioni su La Vetta degli Dei
La Vetta degli Dei è una pellicola del quale consiglio a tutti la visione, dove le scene mozzafiato delle montagne sono le vere protagoniste di questo lungometraggio, è stato fatto un lavoro spettacolare e sono valsi tutti gli anni per vedere realizzato un capolavoro come questo. Chi ama i generi di film incentrati sull’alpinismo con un tocco di mistero apprezzerà la visone anche chi non è abituato a questo genere ne rimarrà inebriato come lo sono rimasta io. Mi ha lasciato un bagaglio di emozioni non da poco lasciandomi una sola domanda alla fine della visione: “Sempre più in alto. E poi?” lo scoprirete solo vedendolo. Per altre recensioni continuate a seguirci sul nostro sito Kaleidoverse ed iscrivetevi ai nostri canali Telegram e YouTube, per non perdervi tanti articoli interessati di ogni genere.
La Vetta degli Dei è una narrazione e un'animazione di successo, un'opera che unisce complessità e chiarezza, un film che oscilla tra il molto concreto e l'intoccabile. A pochi metri dalla vetta, è difficile immaginare un adattamento migliore per un materiale del genere.