Si dice che a pensar male si faccia peccato, ma spesso ci si azzecca. Entriamo oggi in uno specifico mondo dell’universo battezzato con il suffisso “washing”, quando si cerca appunto di “lavare, togliersi di dosso” delle caratteristiche poco apprezzabili dall’opinione pubblica nel tentativo di essere maggiormente vicini alla tendenza del momento. È un concetto forse poco onorevole da presentare, ma del resto lo sappiamo molto bene: soprattutto nel mondo del marketing, per essere appetibili e diplomatici ingraziandosi l’apprezzamento comune, è bene cavalcare l’onda, dimostrarsi sensibili sui temi caldi del momento, ed è una questione che ha cambiato manifestazione nella sua forma, ma che è rimasta sempre la stessa nella teoria di base. Una volta era “greenwashing“, quando si abbracciava la causa dell’ecosostenibilità da parte di aziende più o meno grandi, poi è arrivato il whitewashing, soprattutto nel cinema, e le accuse nei confronti di determinate produzioni di assumere un cast prettamente di razza bianca anche per interpretare personaggi di altre etnie. Oggi si è arrivati al rainbow washing, un tema caldo, soprattutto agli esordi del Pride Month, che vogliamo analizzare da vicino con voi e in maniera molto semplice qui su Kaleidoverse.
Rainbow washing: tutti i colori dell’iniziativa (anche quelli più scuri)
Rainbow washing, o quando i brand manifestano apertamente il loro supporto alla comunità LGBTQIA+, per dimostrarsi “friendly” nei loro confronti. Ma a prescindere da quanto questa iniziativa possa dimostrarsi una pura tecnica di marketing, improntata a incrementare le vendite dei propri prodotti o servizi, la questione da sollevare è anche un’altra, ben più sensibile: le pratiche aziendali di questi brand sono altrettanto a supporto? Si tratta dell’espressione concreta di buoni propositi già messi in atto anche a livello di gestione delle risorse umane, o di fatto le basi di questa campagna sono piuttosto deboli e non presentano alcuna azione concreta a sostenimento?
Sappiamo bene che, come qualsiasi altra tematica umanitaria, sociale, culturale e storica, le delicate problematiche di integrazione che appartengono alla quotidianità del mondo LGBTQIA+ non sono da portare all’attenzione del pubblico per un solo mese all’anno. Non basta ricordare questa comunità sempre più ampia solo per poco tempo, riportando arcobaleni e post commemorativi, forse pieni di buone intenzioni e propositi che difficilmente si trasformano in qualcosa di più concreto.
Lo abbiamo già detto, e ci teniamo a ripeterlo: è scorretto eticamente che si prendano a cuore cause sociali come il sostegno a membri di una comunità sempre molto discussa per motivi primari diversi dall’offerta di aiuto concreto nei loro confronti, ma proprio in virtù delle discussioni che si generano intorno a questi temi si genera un focus in grado di attirare parecchie persone. Si sfrutta la visibilità di personaggi famosi, o al centro di dibattiti ed eventuali polemiche, per catalizzare l’attenzione del pubblico nei programmi TV o degli utenti nei contenuti social, e se da un lato questo può dimostrarsi positivo per approfondire il tema e far conoscere sempre più questa comunità in tutte le sue sfumature, non sempre questo fenomeno presenta colori così sgargianti.
Rainbow washing: attivismo sincero o ipocrisia?
L’ondata di attivismo che si sta alzando e propagando negli ultimi tempi ha chiaramente anche uno scopo “a fini di lucro” per attirare più acquirenti, facendo passare la propria azione di marketing per azione sociale. Elenchiamo a questo punto alcuni esempi, per essere più concreti: nel 2019, Marks & Spencer aveva lanciato un sandwich composto da “lettuce, guacamole, bacon and tomato”, ingredienti le cui iniziali formano l’acronimo LGBT. Calvin Klein, Converse, Oreo e Versace, sono altri brand che hanno cavalcato questo fenomeno, ma il punto della questione che vogliamo centrare è: sono solo iniziative volte a far cassa, o c’è (anche) un sincero supporto e accettazione della comunità che si sta promuovendo? Non solo, ma quanto è corretto da un punto di vista etico rifarsi a questo movimento, andando a incrociare una causa puramente socio-culturale con manovre di marketing, dunque economiche?
Finché l’iniziativa è sincera, eventualmente associata a beni e servizi affini alle caratteristiche della comunità LGBTQIA+ e le aziende promotrici hanno politiche interne di gestione delle risorse umane coerenti con quanto promuovono al pubblico, tutto bene. Il problema si pone quando si sfrutta l’orientamento sessuale delle persone con manovre di marketing “pro domo sua”, per portare profitti e benefici in primis alle aziende. Stiamo parlando di una parte della società che vive quotidianamente problemi di integrazione politica e sociale ancora oggi, piccoli o grandi che siano. Se togliamo la lente arcobaleno che colora queste iniziative e ci chiediamo quale sia la sostanza concreta che le caratterizza, possiamo avvicinarci in maniera ancora più critica e obiettiva a questo fenomeno.
Nel bene o nel male, purché se ne parli. Ma se oltre a parlare, si attuassero anche azioni volte a migliorare la qualità della vita attuale di persone che, allo stato dell’arte, devono fare i conti con una società che non riesce, o non sa, accettarli per quello che sono, sarebbe un vero passo rivoluzionario. Perché a quanto pare, la rivoluzione più grande sta nei gesti più piccoli: accettare e accettarsi senza secondi fini, senza ipocrisia e sostenendosi vicendevolmente. Con costanza però, non solo un mese all’anno.