Nonostante la sua dinamica disastrosa, deprimente e straziante sotto qualunque punto di vista, che si parli di economia, sociale o umanitario, il 2020 è stato anche un anno nel quale abbiamo avuto modo di sperimentare modi di vivere e di passare le giornate totalmente inaspettati. Ci siamo trovati costretti da un giorno all’altro a rimanere rintanati in casa, riducendo gli spostamenti al minimo indispensabile in attesa che qualcuno situato chissà dove nel mondo trovasse una risposta e una cura alla pandemia del Covid19. Insomma, nessuno dei residenti italiani con almeno 80 candeline soffiate ha mai vissuto senza la libertà di poter uscire, esclusi casi eccezionali di coprifuoco o affini. Spostandoci dal Bel Paese e recandoci in Francia, Netflix propone la nuova fatica di Dany Boon, figura ormai conclamata del mondo cinematografico francese, 8 Rue de l’Humanité, cercando di far rivivere agli spettatori i giorni terribili del primo lockdown, sotto una luce più ironica e meno opprimente. Se il film sarà giunto o meno all’obbiettivo ve lo spieghiamo in questa recensione, ma preparatevi a una presenza costante: gli stereotipi.
Stereotipi a non finire
Quando mi sono imbattuto nel trailer di 8 Rue de l’Humanité, sentivo già la puzza di stereotipi lontana un chilometro, ma visto l’incipit interessante ho comunque deciso di dare una chance sperando di esser messo di fronte a un’opera capace di strapparmi qualche sorriso. Insomma, l’idea di rivivere i giorni del primo lockdown tramite le vicende riguardanti gli inquilini di un condominio, seppur parigino, mi sembrava capace di donare un po’ di calore a quella serie di ricordi che, almeno nella mia testa, erano e sono tutt’ora portatori cardine di freddo e apatia. E invece, il regista / sceneggiatore e attore protagonista ha deciso di soffermarsi solo sugli elementi quasi trash che tormentavano il periodo, impegnandosi talmente a fondo dal non lasciarsene sfuggire nemmeno uno per strada, quasi come se gli altri non fossero abbastanza. E quindi partiamo con la coppia di immigrati addetta alla pulizia del portone o alla distribuzione dei pacchi che arrivano dai corrieri, quasi come se per i francesi quel posto di lavoro fosse degradante.
Passiamo alla famiglia dove il padre palesa questa paura del Covid patologica, quasi come se fosse ipocondriaco, mentre la madre cerca di affrontare il tutto con razionalità ma troppa leggerezza. Praticamente, mentre lui spruzza disinfettante su qualunque superficie possibile, lei si reca in prigione (come lavoro fa l’avvocato penalista) senza l’ausilio della mascherina. Giungiamo dunque al povero padre scorbutico e incapace di svolgere il proprio ruolo che si trova bloccato in casa per la prima volta da solo con due figli, vedendosi costretto ad assumersi realmente le proprie responsabilità. Il che potrebbe anche suonare interessante, se non fosse per la sua tendenza a credere a qualunque fake news letta su Facebook su lobby, dittatura sanitaria e sui chip impiantati da Bill Gates per tracciarlo tramite Microsoft grazie ai tamponi. Spostandoci sullo stesso pianerottolo, ma verso sinistra, troviamo lo stereotipo perfetto della pandemia Covid: la coppia formata da Il Fit e La Fat. In questo caso, lui è il ragazzo tutto muscoli che passa le sue giornate da rinchiuso in casa a fare dirette Instagram per far allenare le sue follower, mentre lei svolge la stessa mansione ma cantando la stessa canzone per ore e ore. Il tutto, giusto perché mancava, con la moglie prossima al parto. Ora, potrei continuare a descrivere le mille scene degli applausi ai medici, della spesa al supermercato o dei termometri sparati verso la fronte di chiunque ogni due secondi ma a cosa servirebbe, avete già capito. Meglio parlare del nulla di 8 Rue de l’Humanité, o quasi.
Il nulla, o quasi
A prescindere da tutti gli stereotipi inseriti in 8 Rue de l’Humanité, ciò che stona particolarmente è la pochezza dei rapporti interpersonali che la sceneggiatura ha cercato in tutti i modi di mettere in piedi. Mi rendo conto di come, alla base, saremmo dovuti essere in un contesto unicamente ironico e teso a donare un minimo di leggerezza ai terribili giorni del lockdown. Ma allora, c’era davvero bisogno di introdurre con le pinze delle gocce recuperate dai momenti tristi e di riflessione sulle difficoltà causate dal Covid, nel calderone già stracolmo di idee basilari e così elementari sul periodo? Quando ci approcciamo a un film che parte con l’idea di appartenere a un genere molto specifico, specialmente se si tratta di una commedia, l’obbiettivo non dovrebbe essere quello di riuscire a mettere due piedi in una scarpa sola, ma di poter spingere il più a fondo possibile sui tasti in grado di rendere l’opera degna della corrente alla quale si vuole accostare. E quindi sì, sarebbe semplice continuare a fare di tutta l’erba un fascio, se non fosse per gli unici due personaggi degni di nota: lo scienziato pazzo e la vecchia barista in difficoltà.
Il primo possiede una clinica privata all’interno del cortile del condominio, ed esattamente come tutti gli scienziati di quel periodo lavora giorno e notte alla ricerca del fantomatico vaccino. Ciò che riesce a contraddistinguerlo rispetto alla mediocrità di tutti gli altri è la capacità espressiva impressa al personaggio dall’attore Yvan Attal, degna del miglior interprete del Dottor Victor Frankenstein. Il suo volto varia in base allo stato di avanzamento della sua missione, toccando picchi di epicità nelle fasi finali del film, dove in preda all’isteria causatagli dai continui fallimenti, vi delizierà con delle scene a dir poco esilaranti. Dall’altra parte abbiamo la vecchia barista in difficoltà a causa delle restrizioni imposte dal Governo, la cui importanza non viene esaltata tanto dalla prestazione di Liliane Rovere, quanto dal suo ruolo di collante silenzioso. Infatti, tutte le vicende che riguardano gli altri condomini trovano, per un motivo o per un altro, soluzione grazie a Louise, la quale nel suo voler apparire così dura e poco avvezza ai sentimenti, dimostra un lato umano totalmente assente in tutti gli altri compagni di cast, i quali appaiono piatti e messi lì solo per cercare di forzare la risata in colui che guarda, attraverso siparietti poco ispirati. Insomma, è la sceneggiatura il vero problema di 8 rue de l’Humanité? Sì, ed è un vero peccato.
Le nostre conclusioni su 8 Rue de l’Humanité
In sunto, possiamo dire come 8 Rue de l’Humanité partisse con tutti i favori del pronostico, scegliendo come mezzo principale per veicolare il proprio messaggio ironico e leggero il periodo più assurdo vissuto durante lo scorso anno in tutti gli angoli del mondo. Purtroppo, stavolta Danny Boon non riesce a imprimere alla sua opera nemmeno quella vena goliardica che ha contraddistinto tutte le precedenti. Pecca una sceneggiatura dei personaggi praticamente assente, nonostante non ci fosse una trama vera e propria centrale da dovergli far scorrere lungo le spine dorsali. Sembra quasi si sia voluto ridurre tutto ciò che ciascuno di noi ha vissuto durante quelle giornate a delle scenette stereotipate, risultando a lungo andare di poco gusto e inutilmente ripetitivo.
Vien quasi da domandarsi se ci fosse bisogno di andare avanti per 124 minuti, o se magari ci si sarebbe potuti fermare alla classica ora e mezza, portando di conseguenza a schermo un prodotto sicuramente meno frustrante. Degna di nota la prestazione di un meraviglioso Yvan Attal nei panni dello scienziato pazzo in 8 Rue de l’Humanité, il quale in mezzo a questo marasma di mediocrità sembra quasi un’anomalia inattesa e imprevedibile. A grandi linee in modo similare a come il Covid è entrato nelle nostre vite lo scorso anno, non a caso la stessa malattia che egli nel film cerca di estirpare, partendo dal numero 8 di Parigi per poi puntare a tutti gli altri angoli di questo nostro mondo, così in difficoltà. Noi vi ringraziamo per l’attenzione, rimandandovi a Kaleidoverse e al nostro canale Telegram per rimanere sempre aggiornati.
In un'epoca nel quale si può iniziare a pensare di poter fare un minimo di ironia su ciò che ha causato nelle nostre vite il primo lockdown dello scorso anno, la nuova opera del regista / sceneggiatore e attore francese Dany Boon 8 Rue de l'Humanité fallisce miseramente nel suo compito. Partito con l'obbiettivo di donare a quei giorni un senso di leggerezza e anche un tocco di goliardia il film, complice una durata spaventosamente quanto inutilmente lunga, si perde in una serie di scenette tratte dai più classici stereotipi ricavabili dalle nostre routine risalenti a quel periodo. Vengono meno così tutti i personaggi che avrebbero dovuto, invece, rendere la pellicola un insieme di momenti capaci di donare quella sensazione che si associa ai ricordi che vanno, col tempo, via via sbiadendo. A causa di queste mancanze risulta anche futile la meravigliosa prestazione di Yvan Attal, il quale grazie a una capacità espressiva unica ricorda i migliori interpreti del celebre Dottor Victor Frankenstein.