Che voi abbiate avuto modo di vederlo in sala quando uscì nel 1974, o che voi apparteniate alle nuove generazioni, tutti conoscono Non aprite quella porta. Dal nome originale The Texas Chainsaw Massacre, l’opera è diventata talmente tanto famosa e influente nel corso degli anni che non solo ha inaugurato un genere horror, lo slasher, ma ha anche dato il via a un intero franchise dedicato alla storia di Faccia di Cuoio e della sua famiglia. La pellicola di David Blue Garcia in uscita il 18 febbraio su Netflix rappresenta infatti il nono film della saga, e riprende la storia 40 anni dopo i fatti del ’74, riportandoci nella – apparentemente – deserta Hudson e ricongiungendoci con il noto serial killer, invecchiato e teletrasportato nell’era digitale dei social. La domanda che ci siamo chiesti fin dal principio è: c’era bisogno di un ennesimo lungometraggio sul tema? Lo scopriremo in questa recensione senza spoiler.
Dovevate per forza chiamarlo Non aprite quella porta?
Non aprite quella porta (eh già, il titolo Netflix è l’ennesimo film della saga che si chiama come l’originale, nonostante qui di porte non ce ne siano) segue le vicende dei cuochi Melody e Dante che, accompagnati dalla sorella adolescente di lei, Lili, e dalla moglie di lui, Ruth, si recano ad Harlow, in Texas, con il sogno imprenditoriale di riportare allo splendore la cittadina praticamente disabitata. Diciamo praticamente, perché qualcuno ancora ci vive nel luogo che quarant’anni prima era stato protagonista del famoso massacro; vi sono infatti Ritcher, una specie di meccanico/tuttofare, un paio di rangers e una misteriosa signora anziana, che capiamo ben presto essere la madre di Faccia di Cuoio. Le vicende entrano nel vivo proprio quando il gruppetto entra nella casa della donna, la quale si rifiuta di cedergli la sua proprietà e finisce per fare un attacco di cuore, morendo tra le braccia del figlio.
Fin dai primi istanti i Non aprite quella porta è presente l’aria tipica delle produzioni Netflix – persone molto giovani che scherzano e fanno battute sessiste completamente inutili e senza senso, atmosfera forzatamente strana e, ovviamente, tecnologia ovunque. I protagonisti non sono a bordo di un mini-van come nel film originale, bensì viaggiano in un auto di lusso con tanto di pilota automatico e uno schermo grande quasi quando un computer. Ovviamente, già nei primi due minuti di narrazione vengono introdotti i social media, dato che Melody e Dante sono diventati dei cuochi noti attraverso le loro ricette postate su Instagram; non ci vengono date altre informazioni sul loro background, e sappiamo solo che hanno abbastanza soldi per comprare un’intera città, che pensano di far tornare in vita attraverso una festa tenutasi la sera stessa del loro arrivo.
Violenza, sangue e occasioni sprecate
Se al principio Non aprite quella porta sembra essere una pellicola promettente dati i riferimenti al film originale messi in modo intelligente, come il protagonista seduto nella stessa sedia dove Sally viene legata alla fine della storia o inquadrature simili a quelle del ’74, con il passare della narrazione la situazione peggiora sempre di più. Alcune scelte sono completamente senza senso, come quella di presentare Ritcher inizialmente come un uomo spregevole per poi farlo diventare, all’apparizione seguente, un good guy pieno di empatia e che vuole fare l’eroe salvando tutti. Inoltre, nel corso della pellicola ci siamo chiesti: se hai a disposizione una mitragliatrice, perché decidi di fronteggiare un serial killer con una pistoletta minuscola? L’impressione che abbiamo avuto è che la decisione della produzione sia stata intenzionalmente quella di precludere ogni scontro con Faccia di Cuoio, incentrando l’opera sulla generazione dell’effetto gore piuttosto che su una trama coerente.
Non vi sono infatti scontri nel corso della pellicola, nessun tentativo di fermare Faccia di Cuoio dura più di trenta secondi, e quello che viene mostrato in Non aprite quella porta è il killer che, prima con le mani e poi con la sua tanto amata motosega (che in 40 anni non ha sviluppato nemmeno un po’ di ruggine), si diverte a smembrare le vittime. Vediamo quindi volare braccia, gambe, teste, budella, di persone che avrebbero avuto modo di scappare dalle grinfie dell’assassino, ma che sembra abbiano deciso di rimanere lì solo perché lo scopo del titolo Netflix è quello di far vedere più sangue e più violenza possibile. Il momento in cui abbiamo capito che questa era l’intenzione dei produttori è stato in una scena dove, alla salita di Leatherface in un pullman pieno di gente, questi anziché decidere di scappare dalla porta rimasta aperta prendono in mano il telefono e avviano delle dirette su TikTok; è facile intuire il destino di tutti quei personaggi, trucidati in una sequenza fin troppo lunga, confusionaria e dove regna solo il gore.
Non aprite quella porta, o meglio, non aprite quel film
Ciò che inizialmente ci aveva ispirato di Non aprite quella porta era la presenza nel nuovo titolo Netflix di Sally, l’unica ragazza sopravvissuta al massacro del ’74. Ci aspettavamo quindi che la donna sarebbe stata un punto focale del film, ma purtroppo non è stato così; ella viene infatti menzionata un paio di volte nel corso della pellicola, e mostrata in brevissime scene che non apportano nulla alla trama fino agli ultimi 20 minuti, dove raggiunge finalmente il luogo del nuovo massacro. Anche in questo caso però ci delude: il suo confronto con Faccia di Cuoio viene ridotto a poche battute scarne, e una volta messi vicini i due personaggi risultano diacronicamente eseguiti male: lei, che dovrebbe avere circa 60 anni, sembra ben più vecchia, mentre lui, che nell’opera originale era più adulto, qui sembra ancora giovane e nemmeno ha i capelli bianchi. Insomma, c’era l’occasione di creare un apice narrativo interessante, ma non è stata sfruttata, riducendo Sally a un personaggio del tutto marginale.
Per quanto riguarda il finale della pellicola, senza fare spoiler, diciamo solo che, così come per la maggior parte delle scelte narrative, non ne abbiamo colto il significato. L’ultima scena del film ci lascia alludere che probabilmente seguiranno altri progetti nel franchise (e speriamo che non si chiamino ancora “Non aprite quella porta”), ma avremmo preferito che il titolo Netflix si fosse fermato cinque minuti prima, dove il finale sarebbe stato coerente e decisamente più soddisfacente. Prima di passare alle nostre conclusioni sull’opera vi invitiamo a iscrivervi al nostro canale Telegram e a seguirci su Kaleidoverse per rimanere aggiornati sul mondo del cinema e molto altro.
Non aprite quella porta è l'ennesimo titolo nel franchise iniziato nel 1974, questa volta prodotto da Netflix e ambientato 40 anni dopo il massacro di Faccia di Cuoio. Nonostante le premesse per la pellicola fossero buone, con il ritorno di Sally, l'unica sopravvissuta agli eventi del film originale, tutte le occasioni non vengono sfruttate, e il risultato è un'opera confusionaria, non coerente e dove tutta la narrazione sembra volta solo a mostrare violenza senza senso e a produrre l'effetto gore. Il killer si diverte infatti a smembrare un gran numero di persone in svariati modi, facendo volare arti e sangue da tutte le parti e senza essere praticamente fronteggiato da nessuno per più di trenta secondi. Anche i protagonisti ci hanno deluso: degli influencer con talmente tanti soldi da poter comprare un'intera città, ma con le idee ben poco chiare su come agire di fronte al minimo ostacolo.
Il finale aperto ci fa intuire che quasi sicuramente arriveranno altri progetti nella saga, e possiamo solo sperare che non si chiamino ancora "Non aprite quella porta" e che siano meglio di questo, che non vi consigliamo di vedere.