Inside è un capolavoro comunicativo. L’essenza di ciò che significa essere creativi, di trasformare uno stimolo in un messaggio contenente ciò che si è, ciò che si vive e ciò che si vorrebbe essere. Bo Burnham si contraddistingue come un comico telecronista di ciò che fa: non si tratta di una classica dicotomia tra linguaggio e meta-linguaggio, ma di un tutt’uno, egli fonde le due cose in una serie di racconti perfetti e limpidi. Talmente trasparenti da spingere ognuno di noi, spettatori e critici improvvisati, a trasformarci in microscopi pronti a puntare il messaggio e scomporlo, con una sola missione in testa: ”Qual è il confine tra sfogo e critica? Si, si, questo è demenziale però guarda quanto fa riflettere! Parla della pandemia ma se guardi attentamente parla di tutt’altro! Aspetta, non riesco a trovare il significato nascosto di questo pezzo, Bo Burnham sei veramente un genio!” eccetera eccetera…
È veramente incredibile mettersi un microfono in bocca o cominciare a scrivere freneticamente sulla tastiera alla ricerca dei più interessanti collegamenti e spunti creativi di un prodotto artistico. Società, politica, economia, estetica: i quattro grandi spazi dove ficcare le nostre formine intellettuali. C’è una cosa però che ho sempre pensato guardando ogni singolo spettacolo di Burnham: ”E se tutto questo fosse il nulla? Un flusso delirante estremamente divertente? Un oroscopo di opinioni e fatti in cui ognuno è soddisfatto di vedere parte di sé e dei propri pensieri su un palco?”. Spiegherebbe come ogni singola persona riesca, parlando di Inside, a dare incredibili delucidazioni, dimenticate il secondo dopo averle lette o sentite. In occasione dell’uscita di Inside: The Outtakes, raccolta di scene tagliate e dietro le quinte dello speciale uscito su Netflix l’anno scorso, cerchiamo di rispondere a questa domanda: ”Che cos’è Bo Burnham?”.
Performing, performing, performing
Questa non è una biografia, ma possiamo partire da un fatto: Bo Burnham è un fenomeno del Web, nato su Internet e spinto dalla viralità a soli sedici anni per iniziare una carriera da stand-up comedian professionista. Ragazzetto irriverente che nulla è, e niente sa, a parte mettersi in mostra:
“As a comedian what you’re supposed to do is talk about what you know. And what I knew always was performing.”
E questo riassume perfettamente l’approccio iniziale della sua creatività. Parlare di ciò che si vive e prova, l’ambizione e l’inadeguatezza di una bomba artistica ritrovatasi così in fretta a tenere in mano spettacoli sold-out. Non stiamo parlando di ansia e paura “on-stage”, anche se in All eyes on Me, vincitrice di un Grammy Award, si menziona questo concetto, ma di una sindrome dell’impostore perpetua che si scontra con la consapevolezza e la voglia di auto-riconoscimento. Un contrasto così potente e mai definito che rende l’arte di Burnham una pedina bipolare tra il genio che si piange addosso, e il genio dell’autocompiacimento, mettendosi in uno spazio centrale, neutro ma non troppo, di chi ha fatto della sua vita arte e dell’arte la sua unica forma d’espressione, nonché quasi unico argomento.
Cosa vuoi dire Bo?
Parlando di Eight Grade, film di cui è regista e sceneggiatore, disse: “Volevo raccontare la storia di una ragazza in cui la sua preoccupazione maggiore fosse il fatto che il film della sua vita non fosse interessante, perché credo che questo sia il significato dell’essere vivi in questo periodo, specialmente per i giovani online”. Essere vivi è provare a rincorrere una quadro di sé e fallire nel processo, raccogliendone i risultati. That Funny Feeling, altro brano presente in Inside, è un elenco di tutto ciò che il mondo, e soprattutto Internet, ha creato, e in maniera estremamente convinta ha trasmesso, fallendo, oppure semplicemente entrando in quello strano limbo tra cringe e apprezzamento. Così come recita il titolo della canzone, è difficile classificare quella specifica sensazione:
“The whole world at your fingertips, the ocean at your door. The live-action Lion King, the Pepsi Halftime Show. Twenty-thousand years of this, seven more to go.”
Bo Burnham è attaccato al fallimento, al degrado dell’arte e della società dello spettacolo, ci sguazza e se ne nutre e in parte forse se ne sente responsabile. Difficile confermarlo, non lo conosciamo. In quel turbinio infinito che è il suo modo di fare spettacolo, in questa continua rincorsa alla sorpresa, è il fallimento ciò che crea il suo fenomeno? Che lo rende classificabile? No, troppo semplice.
Mr. Burnham
Come può il “genio” essere così comprensibile? Forse l’unione tra tutte le caratteristiche può aiutare. Bo Burnham è un fluido artistico che rielabora ogni spunto creativo esistente e unisce al prodotto finale la dimostrazione del suo processo. Gioca con ciò che il pubblico conosce, ne rimescola le caratteristiche e sforna un risultato non mai visto, ma imprevisto. Sputa su tutto ciò che ha intorno con un cinismo estremamente attraente e preciso, rendendosi costantemente sia tiratore che bersaglio, così chiunque, dall’alto del proprio piedistallo mentale al basso della propria insicurezza, si possa sentire rappresentato. È l’eterno incompreso stranamente compreso da tutti, perché in forma estremamente elaborata riproduce ciò che tutti quanti possiamo fare, specialmente adesso: intrattenere.
Bo Burnham non è arte, è il suo passo precedente. È lo stimolo caotico proprio di ogni essere umano col valore aggiunto di essere perfettamente ordinato. È l’emblema dell’espressione contemporanea: la zona di comfort dei nostri antenati primitivi era la caverna illuminata dal fuoco, la cui parete veniva imbrattata dai racconti di caccia; ad oggi le piattaforme d’intrattenimento sono la nostra seconda casa, e il buco nero dell’obiettivo la protesi che ci permette di sentirci al mondo ed esprimere il nostro quotidiano, decisamente più astratto della caccia. Più critico, creativo, senza spazio o tempo, senza segni di usura, forse più libero.