L’arrivo di Edgerunners di Hiroyuki Imaishi (ideatore già di capolavori dell’esagerazione come Gurren Lagann, Panty & Stocking e Kill La Kill) dell’acclamato Studio Trigger ha portato a Cyberpunk 2077 una nuova linfa vitale. Certo, il brand ha passato gli ultimi due anni nell’anonimato e nello sconforto di chi riponeva a quest’ultimo enormi speranze, ma CD Projekt RED ha comunque ancora una meritatissima fama con la saga di The Witcher. La delusione più cocente dei fruitori riguardo l’ultima sfortunata fatica della casa polacca è stata proprio l’ambientazione presa in modo marginale: violenza gratuita, fusione ibrida tra macchina e uomo, armi come se piovessero, auto volanti, grattacieli immensi, e molto altro. Il cyberpunk non si limita solo a questo.
Quest’ultimo è, oltre alla sua spettacolare “facciata”, una corrente artistica molto profonda, in grado di toccare vari media che abbiamo visto fino ad oggi, dal cinema alla letteratura, dal fumetto e dall’animazione a persino al videogioco. Tutte queste opere, grazie all’uso di splendidi orpelli al neon e luci artificiali accecanti, sono volte a narrare un tema ben preciso, a volte oscuro e complesso e in altre più “leggero” ma mai banale, volte a dare uno scossone all’intera società contemporanea. Oggi vi spiegheremo cos’è, cosa tratta e perché è così acclamato un genere come il cyberpunk.
Cybergenesi del nuovo sé
Il tema del cyberpunk lo troviamo come accenno nel fumetto del Giudice Dredd nel 1977, nasce come terminologia nel 1980 con l’omonimo racconto dello scrittore Bruce Bethke e nasce come genere letterario (nonché di effettiva espansione) nel 1983, anno di pubblicazione del già citato racconto. Esso nasce come versione pessimistica della fantascienza americana narrata fino a quel periodo, dove la tecnologia si è evoluta con una velocità disarmante, causando però così l’involuzione dell’essere umano (sia individuo che specie). Non a caso l’assenza della lotta di classe, la disuguaglianza sociale, l’inutilità dei governi e il trionfo del capitalismo sono temi ricorrenti nel movimento.
Questa visione andava di pari passo con la confusione e il pessimismo vissuto a cavallo tra gli anni ’60 e ’70: dopo un movimento come l’amore libero e l’espansione sempre più imponente della drug culture, l’America ha vissuto il pieno della Guerra nel Vietnam, un mandato presidenziale controverso e, di conseguenza, la costante e crescente sfiducia verso le autorità. Per questi motivi nelle opere cyberpunk più di spicco notiamo delle compagnie ultra-capitaliste che guardano il mondo dall’alto in basso, giocando a fare Dio con il mondo che le circonda, dove il protagonista dell’opera di turno dovrà svolgere lavori illeciti per conto (o contro) di queste per porre fine al problema.
Come già accennato, in questo mondo è facile imbattersi in evoluzioni psicofisiche cibernetiche e immediate: una protesi potenziata, un hardware neuromorfico, sistemi oculari complessi, tutte componenti androidi che vanno a rimpiazzare parti organiche, legandosi a doppio filo con il paradosso della nave di Teseo. Il cyberpunk mostra al mondo il lato oscuro della tecnologia, l’effetto collaterale della droga del futurismo. L’umanità si sta davvero evolvendo in questo modo? In tal caso, saremmo ancora vivi? Se sì, saremmo ancora noi stessi? Ad uno di questi interrogativi ha provato a dare risposta Blade Runner, film del 1982 di Ridley Scott, nonché uno dei capisaldi del genere, oltre che suo pioniere artistico.
Come lacrime nella pioggia
Blade Runner (così come Il cacciatore di androidi, il romanzo di Philip Dick da cui è tratto) ci sbatte in faccia il rapporto uomo/macchina e della loro questione esistenziale. Nel film di Ridley Scott, gli androidi vengono rappresentati come perfette macchine disumane che mancano di empatia, soliti a simulare la natura umana, la stessa che paradossalmente va man mano perduta nel corso degli eventi dagli uomini. Rick Deckard e Roy Batty, il cacciatore di androidi e l’umano più umano, entrambi legati da un fil rouge sottile quanto un filo di rame. Il primo dovrà inoltrarsi in una soffocante Los Angeles per portare a termine la sua missione, l’altro vuole semplicemente vivere più a lungo possibile. Ma a riguardo ne parleremo in seguito.
Ciò che più salta all’occhio in Blade Runner è proprio l’ambientazione che, seppur faccia solo da contorno, è la vera protagonista della pellicola. Questa Los Angeles si mostra come uno spaccato di due mondi: la più ricca, raggiante e con grattacieli che toccano le nuvole, e la povera, inquinata ma contemporaneamente sovraffollata e priva di essenza vitale, con una costante e torrenziale pioggia acida. Il sole non picchia mai sulle strade, e le uniche luci che le illuminano sono quelle delle pubblicità invasive e di quelle artificiali di palazzi e mezzi di trasporto. Inutile dire che questa è una feroce critica contro il capitalismo, mostrato in un contesto dove c’è costante crescita per i potenti ed un costante fallimento per i deboli. E non è tutto.
Se nel film dell’82 troviamo i forti timori del periodo, come il sovraffollamento della popolazione e dello strapotere delle multinazionali (problemi ancora presenti) rappresentati dalla folla di asiatici presenti a schermo, nel suo seguito ne troviamo altre più odierne. Il cyberpunk di Blade Runner 2049 infatti punta forte sulle problematiche ambientali dovute all’inquinamento: le discariche di plastica che ospitano la popolazione più povera si rifanno allo stesso problema ancora presente in India e nelle Filippine. A ciò si aggiunge una sfrenata mercificazione del corpo femminile (vi ricorda qualcosa?) e un’olografica amante ideale.
Io sono Dio
Il Neuromante di William Gibson del 1984 è la prima opera che gioca sul concetto di intelligenza artificiale, sull’interconnessione dei dati e di quanto questi possano fondersi con le vite biologiche umane (infatti è il primo che parla di “cyberspazio”) e soprattutto sull’alienazione derivata dalla tecnologia. Ricollegandoci a quanto detto, in Estremo Oriente il pensiero futuristico pessimista è pressoché simile. Se il cyberpunk “occidentale” si focalizza sui problemi generali della società, quello giapponese viaggia su dei temi più intimi.
In breve, l’opera letteraria di Gibson immagina quanto la vita quotidiana dell’uomo possa essere così deprimente da controbilanciarla con una realtà virtuale molto più avvincente, a discapito della perdita della propria identità. Quest’ultimo pensiero ha ispirato diverse altre opere famose come Ready Player One (che trovano nel web un modo per fuggire dalla realtà) e Matrix (un mezzo per sopravvivere), ma nessuno di questi è riuscito a esprimere questo dualismo in modo viscerale tanto quanto Serial Experiments Lain.
L’opera del 1998 di Ryūtarō Nakamura e Chiaki Konaka riflette sulla tecnologia d’uso più comune e sul suo rapporto con l’umanità stessa. Nel mondo di Lain Iwakura, la quattordicenne protagonista delle vicende, tutti posseggono un dispositivo tecnologico dove sono tutti interconnessi tra loro. Cellulari, PC, connessione via cavo e wireless, messaggi istantanei, tutto è disponibile a chiunque in un battito di ciglia. Questi son tutti comfort disponibili anche a Lain, ma che inizialmente rifiuterà di usare per via del suo carattere impacciato. Sarà obbligata a padroneggiare la tecnologia ed immergersi nei meandri del web (chiamato “wired” nell’anime) dopo il suicidio della sua compagna di classe, la quale coscienza sia rimasta inspiegabilmente intatta all’interno del web. La ragazzina contatta tale coscienza, chiedendole il motivo di quel folle gesto, e la risposta non tarda ad attendere:
“Perché qui c’è Dio.“
Ovviamente nell’opera la paura del periodo per una tecnologia come il web è marcata (a tratti quasi complottistica), ma la serie riempie lo spettatore di domande al quale deliberatamente non darà mai una risposta certa: chi è Lain? Chi è davvero Dio? È reale? Cos’è reale? Tutto è lasciato all’interpretazione dello spettatore, ma l’anime non si limita solo agli interrogativi. Senza fare spoiler, Serial Experiments Lain gioca sulla paura di quanto la dipendenza dalla tecnologia possa influire sulla nostra quotidianità, alienando l’individuo in una cupola di vetro colma di cavi, reti e display LCD. E non è tutto: come già accennato, nella serie è sempre presente il tema del divino, un potere ottenibile solo attraverso l’imponente mezzo comunicativo offerto dal web.
Per la libertà
Quindi, ricapitolando, il cyberpunk è una corrente artistica dove si lancia un messaggio ben preciso con il solo scopo di mostrare il peggio più verosimile che possa mai accadere nel prossimo futuro all’umanità, abbellendo il tutto con tecnologie stravaganti. Si tratta tutto sommato di temi che hanno il solo scopo di far riflettere lo spettatore. Ma, oltre alla riflessione, il cyberpunk può dare anche un messaggio di ribellione? Detroit: Become Human, oltre che a dare una ventata d’aria fresca al genere, potrebbe dire qualcosa a riguardo, nonostante le sue pesanti lacune narrative.
L’ultimo titolo di David Cage, questa volta ambientato in un futuro molto prossimo rispetto ai canoni classici del cyberpunk, si focalizza in un mondo dove la forza lavoro è stata sostituita completamente dai corpi sintetici, e chi ha ancora un posto di lavoro è destinato a perderlo a breve. L’ambientazione di Detroit: Become Human brilla di luce propria in un mondo dove vige il razzismo, l’ozio e il malcontento generale del non aver più una casa, un lavoro, una dignità o più semplicemente uno scopo per cui vivere. Ma quindi, perché ribellione? E, soprattutto, da parte di chi?
Nelle opere analizzate in precedenza come (soprattutto) Blade Runner e il Neuromante abbiamo un protagonista che è impotente dinanzi ai problemi quotidiani che affronta e che quindi non si oppone di fatto alle sue regole. Connor, Markus e Kara, al contrario, si attivano per ribellarsi al sistema per quindi invertire l’ordine delle cose. C’è chi vuole solo una vita più tranquilla, chi cerca risposte sulla propria esistenza o chi semplicemente vuole rivoluzionare interamente la società. Ironicamente, i protagonisti sono tutti sintetici. Androidi che fanno il lavoro sporco al posto nostro, mentre noi giocatori li “comandiamo” e impartiamo loro le scelte da compiere. E in questo senso, le macchine otterranno mai la libertà? O forse saranno sempre catalogate come semplici schiave di chi le ha create?
Per riassumere il tutto, il cyberpunk non è solo una critica sociale verso il futuro verosimile a cui andremo incontro, ma a come stiamo trascorrendo le nostre vite oggi. Più in particolare, ci lascia domande su come stiamo gestendo questo rapido progresso tecnologico e sul come potremmo farlo in futuro. Di conseguenza, ci fa immaginare quanto questo problema influenzerà la nostra percezione della civiltà, l’idea dei nostri corpi e la salute della nostra mente. Vi ringrazio per essere stati in questo viaggio all’interno di questo pessimismo futuristico. Per altri approfondimenti che abbracciano l’intero panorama dell’intrattenimento, vi invitiamo caldamente a seguirci sui nostri vari canali e su Kaleidoverse.it.