Dal 17 novembre è disponibile su Prime video il nuovo film di Maccio Capatonda, Il Migliore dei Mondi. Il comico torna a co-dirigere e scrivere un lungometraggio dopo il dimenticabile Omicidio all’Italiana del 2017, che scendeva nel grottescamente comico. Ci viene proposta in questa nuova installazione un’Italia ucronica e a bassa risoluzione. Fatta di modem a 56k, tecnologia analogica e tanta nostalgia. Sempre attraverso il filtro ironico e satirico di Maccio Capatonda. Sarà riuscito a stupire con questo nuovo lungometraggio? Oppure sarà l’ennesima commedia all’italiana dimenticabile? Svisceriamo il tutto nella recensione de Il Migliore dei Mondi.
Ucronia all’italiana
Ennio Storto (Maccio Capatonda) è un informatico di Roma, totalmente e inesorabilmente dipendente dalla tecnologia. Dal momento in cui si alza la mattina, con la sua casa domotica, asservita – e servita – ad Alexa. Fino ad arrivare alla dipendenza più totale dallo smartphone che comanda la sua vita. Dalle relazioni tramite Tinder, fino alla scelta del ristorante. Vive una vita totalmente tecnologica ma totalmente senza speranza, senza scopo. Come da consuetudine tutto questo cambierà presto.
Tutto avrà inizio con una ragazza, Viola (Martina Gatti), che vive in una comunità analogica e che va avanti con la tecnologia degli anni ‘90. Porta un modem 56k al negozio di Storto per essere riparato. Quando quest’ultimo lo connette al suo PC e ci poggia distrattamente lo smartphone sopra, viene immediatamente trasportato in un universo alternativo. Un’Italia del presente dove tutta la tecnologia si è fermata al 1999 per via del Millennium Bug. Bug che ha portato uno scompenso ed una involuzione nella tecnologia.
Storto dovrà cercare il suo posto in questo nuovo mondo e a trovare un modo per tornare al suo. Il tutto viene raccontato attraverso la lente ironica e dissacrante che ha fatto la fortuna di Capatonda. Ma anche l’irriverenza non riesce a salvare la narrativa di quest’opera. Lo spettatore si trova di fronte alla solita commediola all’italiana dove l’idea di base è interessante, ma che per come viene sviluppata e strutturata non offre nulla di nuovo alla formula, che ormai da anni risulta sfruttata e stantia. Le trame funzionano per archetipi e strutture ben conosciute, ma questo non scusa la banalità e l’incidere noioso di cui la pellicola è pregna.
Tecnica: assente
La monotonia dell’intreccio viene ereditata anche dalla regia e dalla fotografia. Difatti ci si trova davanti a un’opera che non ha guizzi registici importanti né degni di nota. Dovuto anche alla struttura registica che mette a capo della pellicola non uno, ma ben tre registi (tra i quali lo stesso Capatonda). Per quanto durante tutta la durata della pellicola si presentino occasioni per far brillare una regia più pensata e più intrigante esse non vengono prese in considerazione. Ma si adagia su un lavoro appena decente, che sfiora la mediocrità. Risultando in un lavoro da mestierante e poco più.
Purtroppo lo stesso discorso può essere applicato alla fotografia che – da tradizione italiana – non ha nessun tratto distintivo, ma al contrario ci si trova davanti a un altro elemento estremamente piatto. Senza arte ne parte. Dove la sua unica aggiunta al lungometraggio è la semplice illuminazione, senza la quale sarebbe impossibile girare la maggior parte delle scene.
Le prove attoriali purtroppo non migliorano la qualità effettiva della pellicola. Per quanto siano degne di nota le interpretazioni di Pietro Sermonti (sempre una garanzia), che interpreta il fratello di Ennio. Regala infatti un personaggio divertente e con cuore, che sa rubare la scena con la sua verve. Apprezzabile anche l’interpretazione di Martina Gatti che riesce a far trasparire tutta l’allegria di Viola e la sua voglia di vivere in modo alternativo ed imprevisto.
Purtroppo gli sforzi di Sermonti e Gatti sono quasi nullificati dalla sceneggiatura. Sceneggiatura che nelle intenzioni vuole portare allo spettatore una critica sociale all’iperconessione e lo stile di vita moderno. Tuttavia, crea una storia che non sa decidere se far pendere l’asticella verso la nostalgia degli anni ‘90, oppure verso la critica sociale. Si susseguono momenti in cui si critica il nostro mondo “pieno di stronzate” – citando una frase della pellicola – e altri dove ci si chiede se uno smartphone “Serve pe’ scopà” senza trovare un equilibrio né una logica.
Le nostre conclusioni su Il migliore dei mondi
È innegabile che la sceneggiatura che regge in piedi l’arco narrativo ha degli ottimi spunti. Poteva dare spazio a riflessioni importanti e profonde critiche sociali. Ma infine risulta un’occasione sprecata. Maccio ha tentato di alzare l’asticella qualitativa dei suoi lungometraggi, ma sia il comparto tecnico che la regia non accompagnano tale ambizione. Inseguendo più una semplice gag – che può far ridere oppure no – piuttosto che una narrazione organica e coesa. Cercando elucubrazioni morali che non trovano riscontro né nel pubblico di riferimento per pellicole di questo genere né nella realtà del lungometraggio.
Il film non trova mai una ragione d’essere, cadendo nella banalità e nella monotonia. Tutto quello che rimane dopo la visione è la scialba sensazione di aver perso troppo tempo dietro una pellicola del genere, che si colloca nella categoria dei prodotti tranquillamente dimenticabili che popolano – anche troppo – le piattaforme streaming. La comicità e la verve di Maccio Capatonda può funzionare nel suo mondo, fatto di trailer e serie parodistiche. In un lungometraggio bisogna sapersi reinventare o adattare al meglio quello che ha reso forte il suo “personaggio” su altri lidi.
E purtroppo non si riesce a raggiungere tale scopo. Lanciando una scialba critica sociale ad un sistema iper-tecnologico che sa tanto di ipocrisia, poiché tali strumenti hanno reso possibile – in parte – la carriera di Maccio. Rendendo infine il messaggio ridondante e conformista. Tanto più se urlato da una piattaforma streaming. Voi lo avete già visto? Vi è piaciuto? Siete in attesa di un prossimo film di Maccio Capatonda? Fatecelo sapere sui nostri social.
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Il nuovo lungometraggio scritto e (co)diretto da Maccio Capatonda si è rivelato senza mezzi termini una delusione. Non basta la verve di Capatonda a sorreggere l’intera pellicola che risulta manchevole in quasi ogni sua parte. Partendo dalla regia che non regala nulla, nessun guizzo nessuna inquadratura interessante o che possa rimanere impressa nello spettatore, sfiorando a mala pena la mediocrità. Ad accompagnare il tutto c’è anche una fotografia insipida che non ha soluzioni visive interessanti ma che al contrario fa solo lo stretto necessario, illuminare una scena. Infine il tutto è sorretto da una sceneggiatura che tenta ma non riesce. Non riesce a dare spazio ad attori che lo meriterebbero come Sermonti e Gatti e non riesce a portare allo spettatore una vera critica sociale. Ed al contrario porta una critica sociale che ha troppo l’aspetto di una lezioncina e che sa tanto di ipocrisia poiché ridondante e conformista. Tanto più se urlato da una piattaforma streaming.