Con questo articolo si inaugura una rubrica – a cadenza irregolare – dove andiamo a consigliare opere di cui incoraggiamo caldamente la visione. Titoli scelti con cura da noi per voi. Quest’oggi iniziamo con The Addiction di Abel Ferrara. Pellicola che dà il là ad una domanda: cos’è la dipendenza? Una domanda tanto semplice da esprimere quanto complessa da elaborare. Mille e più parole sono state spese al riguardo. The Addiction di Abel Ferrara ne è una in più. Con questo articolo andiamo a spiegare il perché quella di Ferrara potrebbe essere una voce da non ignorare. Pellicola uscita nel 1995, nominata all’orso di Berlino di quell’anno. Lungometraggio che mette di fronte allo spettatore un’allegoria grande come la vita e importante come la sua essenza. Andiamo a discernere il tutto.
Istinto e sangue
La protagonista dell’intreccio narrativo che viene messo su dalla pellicola è Kathleen Conklin. Introversa laureanda di filosofia all’università di New York. Una ragazza come tante, ma che non sarà tale per molto. Una sera mentre Kathleen torna verso casa viene aggredita da una donna, Casanova – scopriremo il suo nome successivamente – che la morde al collo, succhiando e cibandosi del suo sangue. Kathleen debole, ferita e confusa riesce a tornare a casa. Già dalla mattina dopo oltre al dolore comincia a concepire di sentirsi diversa, di essere diversa. Il tutto comincia con piccole cose, il rifuggire la luce del sole, non aver voglia di cibo ma al contempo avere sempre fame. Dalla timida ragazza che era, cambia. Cambia nei modi, ora più aggressivi, procaci e sconsiderati.
Ha una voglia irrefrenabile di sangue e le persone attorno a lei pagheranno il debito di questa fame, poiché anche loro condivideranno tale miseria dopo che Kathleen avrà banchettato con loro. Ella si ritroverà a spargere e condividere la sua fame con loro portandoli in un turbinio di sanguigna dipendenza. Cosa che cambierà per sempre le loro vite. Tutto questo condurrà a una inevitabile fine che in questa sede non verrà rivelata ma solo discussa. Tale finale poteva essere il più scontato e prevedibile mai visto – e forse uno sceneggiatore meno esperto avrebbe optato per quello – ma Nicholas St. John non si accontenta di questo. Insieme ad Abel Ferrara mette su uno dei finali più criptici ma al contempo appaganti che solo il cinema ed i grandi artisti possono regalare.
Il prezzo da pagare
Ferrara per questa pellicola decide di non regalare nulla allo spettatore, nemmeno il colore. Ci troviamo di fronte ad un’opera girata interamente in bianco e nero. Questa scelta permette allo spettatore di concentrarsi su ciò che è importante, lasciando ogni distrazione appena prima la soglia della propria mente. Questo senso di concentrazione è accentuato e assecondato dai movimenti di macchina estremamente lenti, quasi fissi in alcune occasioni. Movimenti di macchina che assecondano la narrazione come fine ultimo di un altro racconto, quello per immagini, quelle immagini che rimangono impresse nello spettatore. Immagini anche terze ed osservate spesso da Kathleen durante tutta la pellicola. Perché ci troviamo sì di fronte ad una storia di vampiri e vampirismo, ma reimmaginata. Dove tale condizione non è una maledizione ma un’azione quasi agognata, voluta dalle proprie vittime.
Lo spettatore viene messo di fronte ad un tipo di vampirismo differente come detto poc’anzi. Se nelle altre produzioni filmiche esso è riflesso di una pulsione sessuale – repressa o esplicita che sia – e interpretata come una stigma da cui fuggire nell’interpretazione di St John e Ferrara è qualcosa di voluto, concesso dal soggetto dominato al dominante. Questo concetto viene palesato fin dalla prima “trasmissione”. Casanova dice a Kathleen “Guardami e dimmi di andare via. Non chiedermelo, dimmelo”. Il vampirismo è voluto, il desiderio di provare quella fame è consenziente e consensuale. A volte a livello inconscio, ma presto o tardi si cede a tale dipendenza, alla fine la curiosità vince sulla volontà. Volontà che si piega per solerzia. Ogni azione da lì in poi andrà a cadere sugli altri. Poiché ci si trova davanti non solo un’allegoria della dipendenza ma anche del male perpetrato verso i propri simili.
Il male interiore
La caduta di Kathleen sempre più verso il baratro sarà propedeutica alla palese metafora della dipendenza. Accostandone anche una più subdola e meno ovvia: la concezione del male. Un male subdolo non perché divino – per quanto le analogie con il peccato puramente cristiano non si sprecano, visto il rapporto conflittuale che ha lo stesso Ferrara con la religione -, ma perché umano e tale rimane anche nel vampirismo, nella dipendenza, nel momento più buio. La pellicola non lesina sulle critiche a tali azioni. Grazie ai cinici monologhi di Kathleen dove in un nuovo stato di coscienza si interroga, forse ancor di più di prima, sulla natura del male. Diventa presto un mero strumento di sceneggiatura, che permette di traslare ai spettatori più accorti tali domande ed interrogativi. Fino anche a rendere i suoi studi di filosofia un pretesto per poter citare filosofi o scritti importanti.
Così da non rendere tali argomentazioni vuote e limitate al semplice minutaggio di una pellicola, ma incanalarle attraverso parole e menti più alte ed accademiche. Si pone, infine, con queste dissertazioni più di una semplice rappresentazione di una vampiresca dipendenza, ma una trasposizione della violenza di cui è capace l’essere umano e del male che produce. Si è davanti ad una vera e propria trattazione sull’orrore stesso, che non viene concepito da un essere ultraterreno o da delle creature mostruose. Si tratta di un orrore, al contrario, estremamente terreno, estremamente umano; dove l’unica dipendenza è l’apatia. Non per nulla Kathleen si fa una volta ancora vessillo di tale nefandezza, perfetto emblema di un male a cui solo l’essere umano può agognare. Dopo aver morso una ragazza e le successive rimostranze della stessa Kathleen replica “La mia indifferenza non è il problema qui. È il tuo stupore che ha bisogno di essere studiato”.
Epilogo morale
Durante tutto il lungometraggio ci si rende conto di come le intersezioni morali vadano a disturbare in modo significativamente maggiore di qualsiasi mostro che abita la fantasia. Perché quelle siringhe piene di sangue, quei buchi sulle braccia, quella violenza, quel dolore ed infine quell’apatia esistenziale sono parti di noi. Parti della società in cui viviamo e da cui non possiamo rifuggire ma solo lordarci di tale sofferenza ed interiorizarla fino a comprendere come essa è già parte di noi. Ed infine discernere se stessi in un’epifania e scoprire che – usando le parole di Kathleen – “L’autocoscienza è l’annientamento di sé”. E con questa consapevolezza si va a chiudere il sipario. Arrivando finalmente ai tanto agognati titoli di coda. Agognati, quasi voluti, dallo spettatore. Perché la sequenza finale fa sperare in un qualcosa, un piccolo barlume di speranza che si apre dopo una tempesta.
Importantissima difatti è la netta separazione delle sequenze finali che prima fanno assaporare un appagante bagno di sangue gremito di voyeuristico piacere visivo. Per poi passare non senza sofferenza ad una pace che dopo tale violenza appare artificiosa e costruita ma che nella sua verità risulta liberatoria e reale. Lasciando solo lo spazio ad un monito portato da Casanova: “Non siamo malvagi per il male che facciamo, ma facciamo del male perché siamo malvagi”. Spero di aver acceso la vostra curiosità riguardo questo titolo. Già conoscevate questo lungometraggio di Abel Ferrara? Lo recupererete? Fatecelo sapere sui nostri social e nei commenti. Come sempre, vi invitiamo a leggerci su Kaleidoverse e a seguirci sulle nostre pagine social, dove pubblichiamo sempre contenuti. Se volete condividere con noi suggerimenti, consigli su nuovi film da vedere (ma anche anime, serie TV e videogiochi) o soltanto discutere delle ultime notizie, ci trovate sui nostri gruppi community, Facebook e Telegram.