Il mondo piratesco è da sempre uno dei più amati all’interno della cultura pop e anche il panorama videoludico non ne è ovviamente indifferente. A provare a cavalcarne letteralmente le onde è ora King of Seas, ossia quello che è anche uno dei più interessanti prodotti nati sul suolo italico negli ultimi tempi. Un titolo bello da vedere e divertente da giocare, di cui abbiamo discusso in questa puntata di IndItaly direttamente con 3DClouds, lo studio dietro al gioco.
Un’altra grande intervista esclusiva per IndItaly quindi, che dopo averci l’ultima volta raccontato dell’intrigante e avvincente Eldest Souls, questa volta lascia la terraferma per addentrarsi nelle tumultuose ma irresistibile acque di King of Seas.
King of Seas: intervista a 3DClouds
All-Stars Fruit Racing, Xenon Racer, Carrumble e ora King of Seas: che cosa vi ha spinto a lasciare le quattro ruote per immergervi in un’avventura marittima? Com’è nata l’idea alla base di King of Seas?
Il mercato italiano è ricco di studi che sviluppano titoli di corse, con ottimi risultati tra l’altro. Nonostante nel nostro DNA ci siano i racing game arcade e le quattro ruote, volevamo dimostrare, in primis a noi stessi, di essere in grado di uscire dalla nostra confort zone per addentrarci in generi ancora inesplorati. Abbiamo scelto qualcosa che fosse nel nostro immaginario e che potesse avere un buon impatto sul mercato e abbiamo deciso così di imboccare la via dei pirati. King of Seas è stata dunque una prova di forza per lo studio, la dimostrazione che la maturità di 3DClouds potesse garantire la creazione di titoli variegati e adatti a un pubblico eterogeneo. I risultati poi, ci hanno premiato in questo senso!
Sea of Thieves, l’atteso Skull & Bones e, ovviamente, King of Seas: secondo voi questo nuovo rinascimento che sta vivendo negli ultimi anni il genere piratesco nel mondo videoludico a cosa è dovuto? Semplici coincidenze o c’è qualcosa di più?
Quella dei pirati è un’ambientazione perennemente presente nelle fantasie dei giocatori. Noi parliamo oggi di pirati classici ma se ampliamo un po’ i nostri orizzonti non è difficile scorgere giochi con pirati spaziali o avventure similari su mondi post apocalittici. La verità è che la pirateria permette di creare personaggi estremamente diversificati e profondi e dare vita a storie coinvolgenti, capaci di virare velocemente tono. Possiamo avere feroci pirati con racconti maturi e cruenti o giovani avventurieri desiderosi di scoprire i misteri dei sette mari con un tono più leggero e scanzonato. Credo che molta della popolarità attuale sia dovuta in realtà alle avventure di Eiichiro Oda, capace di narrare una storia incredibile con personaggi sublimi dando vita a un vero e proprio fenomeno di massa. In King of Seas gli abbiamo voluto rendere omaggio, ovviamente, con un sacco di citazioni e riferimenti.
A differenza dell’opera di Rare e Microsoft, King of Seas è un’esperienza prettamente single player, che vede il singolo giocatore stringere un forte legame con la propria nave. Come siete riusciti a creare questa particolare ma riuscita relazione, qual è stata la sfida più complessa che vi siete trovati ad affrontare durante lo sviluppo di King of Seas?
Non volevamo che King of Seas fosse un gioco basato su un singolo personaggio, quanto piuttosto che mostrasse in modo diverso le avventure in mare aperto. Abbiamo così reso protagoniste le navi, creando classi dedicate dove un Galeone può funzionare idealmente come tank e uno sloop da veloce assassino. Le abbiamo inserite in un mondo generato proceduralmente per dare ai giocatori qualcosa di veramente unico e personale. Come ogni personaggio che si rispetti, tuttavia, la nave può poi essere personalizzata raccogliendo scafi, polene, cannoni e via dicendo dai bottini ottenuti durante le schermaglie in mare e guadagnare persino abilità speciali pronte per dare maggior profondità al sistema di gioco. Proprio il gameplay è stata la sfida più grande di tutte, visto che King of Seas è ricco di attività da fare e per uno studio come il nostro è stata veramente un impresa riuscire a inserire tutte le meccaniche che avevamo in mente rispettando i tempi prefissati. La pandemia poi non ha sicuramente aiutato…
King of Seas è pubblicato da Team17, uno dei più importanti publisher della scena indipendente. Com’è stato lavorare con loro, il supporto che avete ricevuto è stato essenziale per il successo del gioco?
Ci siamo trovati benissimo con Team17. Abbiamo iniziato a lavorare su King of Seas convinti di pubblicarlo in completa autonomia su tutte le piattaforme senza l’aiuto di alcun publisher, in modo da poter mantenere completamente il controllo della proprietà intellettuale. A sole due settimane dal lancio, tuttavia, abbiamo trovato un accordo con Team17, i quali ci hanno cercato e voluto nel loro catalogo. Grazie a questa nuova collaborazione ci è stato possibile aggiungere numerose lingue, nuove feature e abbiamo avuto una visibilità decisamente superiore. Ci siamo affidati a Team17 in completa serenità sapendo il loro valore e provando orgoglio nel vedere un nostro titolo accanto a giochi di fama mondiale. Siamo stati inoltre il primo studio italiano nella storia a entrare nel loro catalogo e questo ci ha fatto immensamente piacere.
King of Seas è sicuramente uno dei giochi nati nel nostro paese più interessanti degli ultimi mesi. Ma com’è sviluppare un gioco in Italia, quali sono i vantaggi e le difficolta rispetto al farlo in un paese in cui il settore videoludico è più cementificato? Secondo voi lo spiraglio che si è aperto negli ultimi tempi (ad esempio con il First Playable Fund) è abbastanza per aiutare gli studi indipendenti del nostro paese o c’è ancora molto da fare prima di rendere il suolo italiano appetibile per il settore videoludico?
Intanto vi vogliamo ringraziare per i complimenti! Sviluppare in Italia non è facile, ma è un’industria che sta accelerando velocemente negli ultimi anni. Molti studi medio/piccoli stanno nascendo e si stanno strutturando, i publisher internazionali sono sempre più interessati a promuovere titoli nostrani e in generale anche il livello degli addetti ai lavori continua a lievitare. Resta però un grande distacco nel supporto che lo stato dà agli studi di sviluppo in Italia rispetto a quello ricevuto dagli studi europei e internazionali.
Il First Playable Fund è stata solo una piccola scintilla, ma incapace di soddisfare le necessità di un paese carico di progetti e idee come il nostro. Si è potuto osservare la velocità con cui il fondo è andato a esaurirsi, sintomo che il denaro stanziato non fosse minimamente adeguato alle richieste, facendo suonare un campanello di allarme che dovrebbe farci interrogare sull’efficacia di tale, seppur lodevole, iniziativa. La direzione, insomma, è quella giusta ma la strada è ancora molto molto lunga. Dal canto nostro continueremo a sviluppare in Italia affidandoci a professionisti del settore nella speranza di sviluppare ulteriormente il mercato, il nostro studio e arrivare a competere ad armi pari con le realtà internazionali più blasonate.