“La guerra dell’ombra”, così viene soprannominata da Ian Fleming, militare britannico e autore dei romanzi di 007, l’Operazione Mincemeat, tra le più celebri e importanti strategie di spionaggio della seconda guerra mondiale. A capo dell’inganno rivolto ai nazisti protagonista di L’arma dell’inganno – Operazione Mincemeat vi sono: Ewan Montagu interpretato da un Colin Firth in perenne abito nero, festeggiato di un lutto costante, spento in ogni emozione se non in amore, grande risolutore: ”L’amore ha fatto perdere la guerra alla Germania” – diceva l’Alan Turing di Benedict Cumberbatch in The Imitation Game. Al suo fianco Charles Cholmondeley (Matthew Macfadyen): gelido, sempre agitato, blu come il mare di Spagna, al contempo protagonista dall’emotività spogliata, tanto da risultare quasi ridicolo durante il saluto militare. Essi tengono le redini di un progetto che visto dagli occhi del regista John Madden risulta la stesura di una sceneggiatura visiva e frenetica, con tanto di font Typewriter, dalle location dislocate e unite dal filo del discorso dei militari, come il più grande caos targato Cristopher Nolan, il quale ricordiamo a questo proposito avere salde radici londinesi.
L’Arma dell’Inganno – Operazione Mincemeat è un turbinio di fascino ed english-humor che non viene mai lasciato, ma anzi mantenuto in equilibrio per tutta la pellicola, e avvolto da una leggera rigidità dell’esercito inglese. Ciò che viene fatto, dal “set-up” al “mid-point”, è semplicemente ideare la vita pregressa di un uomo, morto, in ogni minimo dettaglio. Scrivere e rappresentare una sceneggiatura pronta per esser consegnata come cavallo di Troia sulle spiagge spagnole colme di spie tedesche. Questa è la recensione di questo interessantissimo processo dapprima etico che strategico, e, prima di addentrarci nell’analisi, vi ricordiamo che la pellicola è disponibile in tutte le sale a partire dal 12 Maggio per la distribuzione di Warner Bros Italia e vi invitiamo a seguirci su Kaleidoverse in ogni sua forma: Youtube, Instagram, Facebook e Telegram.
Madre amore
Come ogni spy-movie che si rispetti, gli eroi principali hanno bisogno di una solida squadra alle loro spalle, che sostenga l’impulsività stranamente presente in tutti quest’uomini di ghiaccio. Ecco presentarsi una delle sfortunatamente poche scelte distintive: la figura materna. Una madre-spia, una madre che si allontana, una madre privata della possibilità di divenire tale, ma che mantiene l’istinto di premura verso ciò che le appartiene e che entra visceralmente a far parte del proprio Io; nonostante ciò, in questa pellicola, complice la donazione volontaria alla Nazione e l’estremo coinvolgimento nel vivere all’interno della storia che essi generano, ogni persona diventa una versione alternativa di sé, ed è stimolante e adrenalinico giocare a indovinarne i confini.
Donne e soprattutto amore, una scelta che potrebbe apparire come una stupida ennesima relegazione di ruolo, e che invece fa trasformare le due variabili nelle fondamenta psichiche di ogni personaggio. Ciò non significa che esse siano stabili. Ogni svolta è collegata all’amore, il che fa sempre più quest’operazione una questione di etica, se pur con qualche sbavatura: rivedere il Colin Firth di Love Actually in determinate scene potrebbe risultare effettivamente eccessivo. D’altronde però si sta combattendo un’ideologia totalitaria, forte di un’etica debole mascherata con valori sociali e politici incredibilmente convincenti. La chiamavano la “banalità del male”, e magari per questo, nonostante tutto, c’è equilibrio anche nei toni più ridicoli.
La mano invisibile
Non dimentichiamo però il grande contesto di L’arma dell’inganno – Operazione Mincemeat: guerra, divise, comandanti e contabili rinchiusi in quattro mura, accuratamente selezionate, con la responsabilità di un mondo intero. Winston Churchill (Simon Russell Beale) cammina avanti e indietro come un criceto sulla ruota in un giardino tanto bello quanto simbolo di prigionia, donando le sue solite massime a generali visibili solamente con una scrivania alle spalle. Soliti contrasti, solite personalità di contorno e di fastidio che mirano a intralciare la bontà degli eroi nonostante siano tutti dalla stessa parte. Piatti, distaccati dall’atmosfera generale, costruita invece a misura di spia. E poi, ogni tanto, i soldati: tutti giovani, neanche l’ombra di un capello bianco, carne da macello ingenua, la piccola critica all’atto pragmatico della guerra.
Oltre a generiche inquadrature simulatrici di un continuo controllo dall’esterno, John Madden crea una sinfonia dinamica di percezioni, movimenti e parole, a tratti complicata da seguire, ad altri creatrice di scene perfette, esaltatrici di buio e mistero, della mano invisibile di coloro che guardano da lontano. Coscienti dell’esterno solamente tramite telegrafo, ma incredibilmente perspicaci nel definirne anche il minuscolo particolare. È il fascino dell’intelligenza e l’immedesimazione nelle tentazioni umane che portano avanti la pellicola, seguendo una scia già calcata che non sa di abitudine, ma di formula narrativa ben riutilizzata.
Racconti di guerra
In pieno stile contemporaneo, L’arma dell’inganno – Operazione Mincemeat è un racconto costituito da un meta-racconto: non parla direttamente con il pubblico, ma vede personaggi incontrarsi e parlarsi sulla base di qualcosa da loro generato, in questo caso la missione di creare un identikit perfettamente credibile. Così le scene vengono adattate alla loro attitudine di attori all’interno di un processo d’introspezione. Essi, in altre parole, diventano la messa in scena che creano, l’inganno pianificato. Le stelle sul petto delle uniformi diventano un ornamento, e la scenografia, unita alla fotografia, sembrano gli unici elementi che ancora vogliono richiamare la guerra. L’infamia di questi eventi è lontana dall’esser percepita, e al fascino dell’intelligenza va aggiunto il fascino della recitazione, che sia di Ewan Montagu o di Colin Firth non ha importanza, su questo campo giocano lo stesso ruolo.
All’apice di questo approccio vi sono le parole dell’Ian Fleming cinematografico, interpretato da Johnny Flynn, testimone privilegiato degli eventi dall’interno. Con la macchina da scrivere sott’occhio e una mano occupata da una sigaretta scrive il romanzo della storia vera a cui egli, e tutti, assistono, e a cui noi postumi ci rifacciamo per avere una speranza di consapevolezza. Durante la “risoluzione”, il suo pensiero è mettere fine alla narrazione, non rimanere con una pagina bianca. Concludere con un gran lieto fine tutti i racconti presenti: quello che stiamo guardando dalla poltrona della sala, quello che si sono raccontati i personaggi a schermo, quello delle conseguenze che il mondo ha vissuto e che in parte rivede in questo momento. Menzione d’onore per Ivor Montagu, fratello della spia interpretato da Mark Gatiss (celebre Mycroft in Sherlock della BBC), grande personaggio dall’influenza enorme e apparizioni minime, proprio il perfetto lavoro dell’ombra.
Operazione Mincemeat è un film che prosegue sulla scia di successo tracciata dai predecessori dello stesso genere e svolge quindi i compiti essenziali al fine di essere una pellicola di qualità. Riesce a distinguersi per la capacità di unire in un interessante equilibrio gli aspetti etici e sentimentali con la strategia e la guerra, poiché facenti parte tutti del piano stesso. È un film raccontato da una voce narrante che riguarda personaggi impegnati nella creazione di una narrazione. Non c'è spazio per l'infamia della guerra, per l'imponenza della divisa: i personaggi recitano così come i loro interpreti, e lo spettatore guarda e aspetta la svolta così come tutte le entità a schermo.