Da poco sono sbarcate su Disney+ i primi 4 episodi della serie Mike, che segue l’ascesa e la caduta di uno dei più grandi, e controversi, pugili professionisti che abbiano mai calcato il Ring. Con queste puntate si ha, attraverso la narrazione dello stesso Mike Tyson (Trevante Rhodes), in un teatro, davanti a un pubblico pagante, come da lui sottolineato, il racconto della sua vita con le (sue) verità e senza nessun filtro (setting ispirato allo spettacolo, Undisputed Truth, tenuto dal vero Mike Tyson qualche anno fa). Le prime 4 puntate sono dirette da Craig Gillespie, un regista non nuovo ai Biotopic, essendo il regista di Tonya (2017) e di tre episodi della serie Pam & Tommy (2022, disponibile anch’essa su Disney+).
Storie di vita in pillole
La prima puntata delle 4 di 8 disponibili inizia con il botto, il momento in cui Tyson strappa con un morso parte dell’orecchio di Evander Holyfield durante un match. Uno degli avvenimenti più eclatanti riguardanti l’atleta. Ma la narrazione della serie è estremamente ordinata e, forse troppo enciclopedica; tenuta unita dallo stesso Tyson interpretato da un ottimo, e molto calato nella parte, Trevante Rhodes, che fa da fil rouge per l’intera vicenda. La natura enciclopedica della serie è affiancata dalla incredibile brevità delle puntate stesse, che hanno una durata media di 30 minuti, rendendo il tutto una biografia in pillole che da un quadro, anche se nelle intenzioni intimista, molto generale e frettoloso dello stesso Tyson.
Il primo episodio tratta della sua infanzia travagliata a Brownsville, New York. Tyson, vittima di un bullismo incessante, un giorno un evento fa scattare in lui la scintilla che poi divamperà nella rabbia che lo porterà in quegli anni verso un cammino di delinquenza adolescenziale, poi in carcere minorile. Nelle prime puntate viene anche delineato il rapporto con la madre che, come quasi tutti i personaggi, viene dipinta o solo come vittima di abusi o solo come vessatrice, senza avere aree grigie o vie di mezzo.
L’opprimente presenza di un padre assente
Nelle puntate successive ci vengono presentati alcuni dei personaggi che sono pietre miliari per la storia del pugile, nel bene e nel male. Primo fra tutti Cus D’amato, interpretato da un sempre piacevole Harvey Keitel, che allenò il giovane Tyson. Che vede nel vecchio allenatore una figura paterna che gli dà la stabilità di cui ha bisogno. Nella drammatizzazione il personaggio di D’amato incarna il classico archetipo dell’vecchio allenatore nelle storie di pugilato, che vede nel protagonista di turno il potenziale per diventare campione ed elevarsi, anche se tutti credono il contrario.
Ovviamente la mancanza della figura paterna è rimarcata spesso anche dallo stesso Tyson che narra, a noi spettatori, la sua storia in teatro. Rendendo cosi impossibile anche per lo spettatore più disattento non notare questa ricerca spasmodica di un surrogato paterno, che restituisce attraverso queste spiegazioni una sensazione troppo didascalica per essere veramente apprezzata. Questa mancanza lo porterà nelle mani del manager, ancora più controverso dello stesso Tyson, Don King; quest’ultimo viene interpretato da Russell Hornsby, che con la sua prova attoriale riesce a mettere in scena un Don King solido e dall’aria e dalle intenzioni manipolatorie, senza far perdere credibilità al personaggio.
K.O. al primo round
La visione di queste puntate di Mike è viziata dalla scelta di farle narrare attraverso gli occhi e la voce dello stesso Tyson rendendo molte delle vicende che dovevano avere più spazio, come la relazione con l’attrice Robin Givens e le successive problematiche domestiche, liquidate in modo sbrigativo e approssimativo. Una scelta interessante invece è stata di certo la rottura della quarta parete da parte del narratore, trasformando il pubblico del teatro nel pubblico oltre lo schermo.
Il lavoro tecnico di regia, fotografia e attoriale, al contrario della narrazione approssimativa, è ottimo. Partendo dal lavoro del regista Craig Gillespie che con tagli veloci, slow-motion di guantoni che si infrangono sui visi riesce a trasmettere bene la muscolosità di Trevante Rhodes nel ruolo di Tyson e a dare energia anche nei momenti statici, aiutato anche da una buona fotografia. La parte attoriale è invece quasi inattaccabile dove tutti gli interpreti sono estremamente in parte, rendendo, anche nella drammatizzazione, il tutto credibile e coeso. Consiglio se possibile la visione in lingua originale per apprezzare meglio le performance attoriali e la particolare pronuncia di Trevante Rhodes che riproduce il modo di parlare “strascicato” del vero Tyson.
Le nostre conclusioni sui primi 4 episodi di Mike
Mike è ben impacchettata. È di facile, e veloce, fruizione vista la durata media di 30 minuti a puntata. La narrazione rimane ben ritmata, ma molto approssimativa, specialmente su alcuni argomenti e momenti della vita del ex campione dei pesi massimi. Il tutto viene Accompagnato da una buona regia e da ottime prove attoriali che rendono la visione piacevole e coinvolgente per un prodotto che punta e, anche se con qualche inciampo, riesce a intrattenere. Ora bisognerà aspettare le prossime puntate che concluderanno la mini-serie, di cui parleremo sicuramente.
Mike è già disponibile per la visione su Disney+ nella sezione Star, vi lascio il trailer in calce all’articolo. E voi cosa ne pensate della serie? Vi piace oppure preferite altro? Per altre recensioni come questa, notizie e tanto altro ancora vi invito a seguirci anche su Instagram, TikTok e sui nostri canali Telegram e Youtube e qui su Kaleidoverse.