Disponibile dal 13 ottobre 2022, Netflix rilascia una serie dedicata a Spotify, The Playlist. Produzione svedese diretta da Per-Olav Sørensen, la miniserie ci accompagna in tanti viaggi, e batte il terreno per aprire una complessa conversazione attorno al personaggio di Daniel Ek (Edvin Endre) e la responsabilità di Spotify nell’industria musicale. In un mondo in continuo cambiamento e con necessità sempre differenti, i geni riescono a discostarsi dai propri successi? Riescono a rinunciare a cosa li ha resi grandi, in un mondo che fa forte chi detiene fama e umilia chi ha sbagliato nel periodo giusto per farlo? Tanti temi e tanti aspetti esplorati, e li analizzeremo in questa recensione per capire se The Playlist riesce nelle sue ambizioni.
Raccolta a tutti gli… intenti
Innanzitutto, è sbagliato pensare a The Playlist come una serie TV, è forse più corretto definirla un’antologia. Ogni episodio, infatti, segue la storia di un diverso membro del cast nel periodo di tempo dello sviluppo di Spotify. Eccezion fatta per gli ultimi due episodi, sono sempre raccontati da personaggi diversi ma sono cronologicamente successivi al rilascio del prodotto, sfociando addirittura nel prossimo futuro, nel 2024. Le prime quattro, quindi, iniziano col racconto della start-up, co-fondata da Daniel e dal trader Martin Lorentzon (Christian Hillborg), la ricerca di un team giovane capitanato da Andreas Ehn (Joel Lützow) e legalmente consigliato da Petra Hansson (Gizem Erdogan).
È importante capire che questa scelta viene proposta aggressivamente, similmente alle conversazioni di Fakes (2022) tra le puntate, ma è in realtà uno sceneggiato di umanità, in cui si scontrano le diverse personalità e le diverse storie. Si scalfiscono gli onori, ma le conseguenze sono sempre le stesse e l’unico scopo delle diverse narrazioni è una ricerca quasi malsana di empatia da parte dello spettatore. Infatti, il fascino della serie sta nel scoprire piano piano quali sono i conflitti interni del team e la formazione di una propria opinione a riguardo.
Un arcobaleno di videocamere e luci
Parlare dell’aspetto tecnico è una cosa lunga e complicata, perché i sei episodi sono praticamente tutti diversi e richiamano a svariati tipi di cinema, creando personalità distinte. Quindi, non ci addentreremo troppo nella faccenda, ma qualche parola è lecito spenderla. La musica, in generale, non è troppo memorabile, vengono usate vecchie hit degli anni 2000 per evocare l’emozione della rivoluzione del tempo, una playlist, per l’appunto. La fotografia versatile e intelligente aiuta chi guarda a entrare nell’ottica del personaggio. La direzione accompagna egregiamente la storia in maniera sempre diversa. In particolare, l’episodio di Petra è uno spettacolo, una delizia per la mente, comparabile solo a quello di Andreas per intrattenimento e immersione. Tante esperienze diverse, tutte vivibili nella stessa miniserie.
Tutte le cose al tempo e nel posto debito
Una cosa importantissima di The Playlist è che non sarebbe potuta essere altro che una serie svedese. Questa cosa è evidente sin dai primi episodi se si ha un minimo di familiarità con il panorama socio-politico della Svezia, ma diventa ovvio anche a chi è più distante verso gli ultimi episodi. Sotto tale aspetto, la miniserie è molto abile; costruisce circostanze chiare e argomentate decentemente da tutti i punti di vista così da comprendere il peso della situazione sulla base dell’ubicazione della vicenda, anche senza conoscerla. La Svezia, in effetti, è un Paese in cui la discussione è sempre attiva (forse a causa del loro forte individualismo sentono la necessità di migliorarsi continuamente) e con l’avvento di internet queste discussioni sono diventate molto acide. Era un periodo nuovo non della nazione, ma del mondo intero. Nessuno sapeva come gestire la nuova tecnologia che stava prendendo piede e superava le necessità del consumatore spesse volte.
Permetteva la diffusione di contenuti in maniera rapida e gratuita. E qui entra in gioco lo storico Pirate Bay, sito di pirateria che usa i Torrent (tecnologia P2P), e la minaccia percepita dalle aziende discografiche e di produzione a causa sua. Non si aveva ancora una chiara comprensione del fenomeno al tempo e si cercava di sopprimerlo, perché non sembrava essere possibile capitalizzare sulla cosa. Pirate Bay per gli amanti della musica era un iTunes gratuito. Concorrenza tosta. Questo è il clima percepito nella Svezia che ha dato luce a Spotify, e qui era giusto venisse scritta tale serie.
Una missione comune, ma non per tutti la stessa
Pirate Bay non era solo la possibilità di scaricare musica illegalmente, era anche un modo di scoprire nuovi artisti, senza barriere di costo. E qui nasce una profonda divisione ideologica esplorata tramite Andreas: anche per lui la cultura dovrebbe essere gratis, per questo Spotify dovrebbe essere gratis. Ma Daniel e Petra sono persone d’affari, che alla fine compromettono e mettono un costo alle funzioni meno essenziali del prodotto, ovvero la musica è gratis, sì, ma devi ascoltare alla pubblicità per pagare i diritti e ogni altra funzione è a pagamento, creando il modello freemium del prodotto. La storia come raccontata da Andreas è cupa ed è una storia di tradimento e di principi. C’è una discussione intensa sull’accessibilità come fonte di profitto perché aumenta il numero di consumatori o come indipendenza del consumatore per poter fruire della cultura musicale messa a disposizione dal sito. Ed è importante che sia Andreas a raccontarlo, perché lui ha innovato la tecnologia del player musicale di Spotify superando i limiti del tempo di internet stesso. Una mente che guarda al presente e al futuro. Sensibile ai cambiamenti così come Daniel non riesce a essere.
Richiami, moniti e speranze
L’ultimo episodio è il più struggente. Durante i primi quattro episodi viviamo la stessa storia senza mai cambiare davvero prospettiva. I personaggi sono tutti parte attiva del processo che ha portato al successo di Spotify, anche se hanno opinioni diverse. Tuttavia c’è un’altra faccia della medaglia, la parte coinvolta che invece subisce e basta: gli artisti. Il progetto di Daniel Ek doveva essere atto a retribuire lui, le case di distribuzione e i cantautori. E guardando la serie si ha l’impressione i produttori vogliano feticizzare il neoliberalismo sfrenato e fare bella figura, dimostrando di aver saputo intercettare le richieste del mercato espandendo l’accesso alla cultura, così come Netflix stessa ha sempre fatto. C’è del disagio, perché a questo punto dovremmo sapere tutti come Spotify aiuti solo chi è già ricco e famoso. La consapevolezza aumenta puntata dopo puntata e non vorremmo essere entusiasti degli episodi più coinvolgenti, come quello di Petra. Ma The Playlist è cosciente e conclude la sua corsa con un augurio: che Spotify riesca a cambiare ancora, in favore degli artisti, e rinunciare al monopolio dello streaming che oggi rappresenta (costringendo gli artisti a rimanere sulla piattaforma anche se le altre sono più vantaggiose, diminuendo le loro entrare in maniera imbarazzante).
Le nostre conclusioni su The Playlist
La miniserie svedese fa del suo meglio per esplicitare il conflitto tra l’umanità dei personaggi e la conseguenza delle loro azioni, mettendo in campo situazioni passate in cui questo team di geni ha saputo comprendere come rivoluzionare il panorama musicale online, agendo dietro a filosofie diverse (alcune condivisibili, altre pure ma corrotte piano piano dal profitto). In ultima battuta, sembra una confessione d’amore e una richiesta di ascolto da parte del colosso. Dice “Spotify ha dato tanto, siete partiti col piede giusto: ora, per favore, ascoltate i vostri artisti per rimanere sulla retta via”. Realizza le sue ambizioni? Se voleva scatenare una discussione con lo spettatore e fra di essi, è giusto dargliene credito, ci riesce. Questo è quanto. Per restare aggiornati sulle vostre serie preferite vi invitiamo a seguirci anche su Instagram, sui nostri canali Telegram e Youtube, oltre che ovviamente sul nostro sito, per rimanere sempre aggiornati.
The Playlist riesce ad accendere un dialogo scomodo con lo spettatore sulla piattaforma più importante per ascoltare musica, mettendo in discussione l'intramontabilità di un genio e la sua capacità di adattarsi ai tempi, nonché ai bisogni di chi crea la sua fortuna. La serie fa incontrare la freddezza del business con la giusta responsabilità nei confronti di una categoria che dipende da te, senza farla sembrare una predica. Un'antologia che ovviamente porta episodi di qualità differente, ma tutti riescono a trasmettere messaggi e prospettive utili alla creazione di un'opinione e un sentimento personali, prima di gridare quasi alla piattaforma "Per favore, ascolta i tuoi artisti". Consigliata a chi vuole mettere in discussione la propria obiettività e tiene ai temi affrontati.