L’ultima fatica di Nicolas Winding Refn è sbarcata da poco su Netflix. Copenaghen Cowboy è la seconda incursione del regista nel panorama del piccolo schermo, con una serie limitata di 6 episodi, presentata fuori concorso alla 79esima mostra di Venezia e primo lavoro nella sua lingua madre dopo ben 18 anni da Pusher 3. Una serie dalle atmosfere synthwave e dall’estetica come sempre ricercata, ma sarà riuscito il regista danese a stupirci di nuovo? Vediamolo assieme, in questa recensione di Copenhagen Cowboy.
Cowboy suburbani
Le vicende di Copenhagen Cowboy hanno un incipit semplice, ma che risulta più complesso e sfaccettato nel lungo periodo. La protagonista della storioa è Miu giovane e gracile ragazza che ha la nomea di “portafortuna vivente” potere che le consente di influenzare positivamente persone e cose nelle sue vicinanze. Questa abilità viene sfruttata da Rosella, donna di mezz’età facente parte di una cosca dedita alla prostituzione illegale, in cerca di fortuna e di una gravidanza non più biologicamente possibile. Non attendendo le aspettative della matrona, la gracile Miu verrà affidata al fratello della stessa, Andre, che gestisce il traffico di donne e un bordello illegale dov’è nei piani costringere la ragazza a prostituirsi.
Durante il suo periodo di “prigionia” forzata, Miu farà amicizia con un’altra donna costretta a prostituirsi da Andre, Cimona, con cui deciderà di scappare. Quest’ultima durante la fuga verrà uccisa da un avventore del bordello “mascherato” di gentilezza e bell’aspetto. La cosa smuoverà Miu e la farà discendere in un turbine di vendetta, fino a far addentrare la gracile, ma non indifesa, ragazza nel sottobosco criminale di Copenhagen. Questo la porterà a incontrare un boss della mala Cinese che soffre di emicranie, una donna in cerca della figlia, uno spacciatore con grandi piani e anche il killer di Cimona e sua sorella, una donna uguale e contraria a Miu.
Uomini e Maiali
NWR (Nicolas Winding Refn, come si firma nella serie) non è mai stato un autore che lesina su metafore e allegorie, alcune più palesi e altre molto più nascoste e criptiche. È indubbio che il tema principale della serie è la decostruzione del dogma sociale e secolare fallocentrico, attraverso le esperienze di Miu nel sottobosco criminale. Questo pone le basi per una decostruzione della serie stessa, poiché anche se con una nota marcata di critica sociale alla centralizzazione maschile del potere, vengono esplorate varie tematiche appartenenti al genere umano tutto, come l’amore di una madre per la figlia, l’amore incondizionato, la solitudine esistenziale e di come spesso dietro ad alcune verità se ne nascondono molte altre più complesse.
Lo sguardo della protagonista è indagatore e penetrante come la presenza della stessa Miu sempre stoica. Il suo peregrinare tra personaggi dai chiari connotati favolistici, la magia, le origini incerte della protagonista e il simbolismo dell’opera rimandano in maniera inequivocabile a una fiaba poiché, ridotta ai minimi termini, Copenhagen Cowboy è una favola nera, un Neo-Noir soprannaturale con una morale le cui origini si perdono nei tempi stessi della narrazione e del narrato umano. Della favola vengono mantenuti vari stilemi, come i luoghi naturali in qualità di ricettacoli di significato narrativo e potere; non per nulla durante la narrazione non saranno rare le scene ambientate nei boschi, i quali assurgono a veri e propri luoghi di epifanie e transizione sia narrativa, sia metafisica. Mantenuta è anche la comparazione tra vizi umani e tratti animaleschi: non a caso torna molto spesso l’analogia tra uomini e i maiali.
Estetica abbagliante…
Il colpo d’occhio dato da NWR a questa serie è abbagliante, non scardina i suoi dogmi estetici ma, al contrario, li esalta e li cementa nell’immaginario dello spettatore grazie ai suoi contrasti e ai suoi ambienti illuminati al neon. Neon predominante sia nell’estetica generale dei prodotti di NWR che specificatamente in questa serie sospesa sempre tra il blu e il rosso, tra toni caldi e toni freddi, tra luce paradisiaca e luce infernale. La dicotomia tra il rosso e il blu viene esaltata anche negli abiti dei protagonisti; Miu per quasi l’interezza dell’opera sarà sempre vestita con una tuta di color indaco, che acquisisce una simbologia di divisa che si contrappone alla divisa rossa di chi è rappresentazione del male risorto dalla tomba e contrario esatto di Miu sia morale che virtuoso. Come detto, le tute diventano divise e in Miu è impossibile non notare un richiamo all’estetica Tarantiniana che riporta alla mente l’iconica tuta gialla della Sposa di Kill Bill (a sua volta un omaggio alla tuta gialla di Bruce Lee).
Non è l’unico richiamo che Copenhagen Cowboy riporta alla mente; la serie ha tantissime influenze differenti, rendendo di fatto ogni puntata ascrivibile a un genere differente rispetto alla precedente, così da non avere un prodotto che si possa racchiudere in una sola categoria: si passa da un western metropolitano, a un Neo-Noir, fino a un simil-Matrix i cui combattimenti sono estremamente derivativi. In ultima istanza, è impossibile non notare l’incredibile somiglianza cromatica e stilistica di alcune scene con uno dei capolavori dei tempi d’oro di Dario Argento, Suspiria; ci si trova non poche volte ad ammirare alcune scene così simili al capolavoro del regista italiano che se estrapolate dalla serie potrebbero passare tranquillamente per delle scene non utilizzate da Argento stesso.
…Quanto accecante
Questa serie è, per il momento, il picco produttivo di NWR come esteta e questo è indubbio anche solo con la visione di poche scene, ma l’estrema amplificazione dell’appagamento visivo sacrifica la narrazione sull’altare dell’appariscenza; ogni fotogramma è visivamente forte quanto narrativamente debole. Lo schema narrativo, come detto in precedenza, è semplicistico inizialmente e incomincia a tendere verso il complesso verso la metà. Tuttavia, questa china di complessità è inasprita soprattutto da due elementi: l’incredibile dilatazione temporale della narrazione che ha un incedere molto lento, più simile a una pellicola di Tarkovskij che a una serie tv; e l’inconsistenza narrativa, poiché poco o nulla è spiegato allo spettatore.
Quest’ultimo elemento rende le metafore e i simbolismi ancora più criptici di quanto non siano già, anche se non imperscrutabili, restituendo così una narrativa semplicemente confusionaria, soprattutto nell’ultima puntata che porta inesorabilmente a quello che da una serie di stampo autoriale non ci si potrebbe mai aspettare: cioè un finale monco, incompleto e scialbo in quanto non conclude le vicende, né dà sfogo al crescendo creato fino a quel momento, rendendo il viaggio di Miu manchevole e non appagante.
Le nostre conclusioni su Copenhagen Cowboy
Copenhagen Cowboy è in definitiva un prodotto da vedere, risultando una delle cose più visivamente appaganti e interessanti del panorama seriale, soprattutto nel catalogo di Netflix, il tutto accompagnato da una più che ottima colonna sonora. Tuttavia, lo spettatore meno avvezzo alla narrativa lenta, diluita e ragionata di NWR potrebbe trovarlo stucchevole e facilmente dimenticabile. In definitiva consigliamo il prodotto a chi ha già apprezzato i lavori di NWR o che non ha paura di un incedere lento e delle simbologie inserite nell’impianto narrativo e vuole vivere un’esperienza visiva nuova.
Speriamo di aver acceso la vostra curiosità verso la serie. Voi, avete visto Copenhagen Cowboy? Cosa ne pensate? Fatecelo sapere nei commenti. Come sempre, vi invitiamo a leggerci su Kaleidoverse e a seguirci sulle nostre pagine social, dove pubblichiamo sempre contenuti. Se volete condividere con noi suggerimenti, consigli su nuovi film da vedere (ma anche anime, serie TV e videogiochi) o soltanto discutere delle ultime notizie,ci trovate sui nostri gruppi community, su Facebook e Telegram.
NWR si riconferma un grande esteta della macchina da presa, sia a livello cinematografico sia seriale. Copenhagen Cowboy è un tripudio di bellezza visiva difficilmente eguagliabile nella serialità televisiva. Tuttavia, soffre anche di una narrativa a volte scialba e troppo criptica per poter fare breccia nel pubblico generalista e di una narrazione lenta che lo allontana ancora di più dagli standard moderni di attenzione. Rimane comunque un prodotto da recuperare per tutti gli estimatori di NWR e per chi ha un'alta soglia di attenzione e abbia voglia di appagare la vista.