Il mondo dei docufilm e delle docuserie true crime è composto per la maggior parte da storie che possono essere descritte con gli aggettivi più disparati: agghiaccianti, bizzarre, incredibili, tanto per dirne qualcuno. Nonostante le reazioni suscitate da questa tipologia di prodotti sia quindi variegata, gli obiettivi sono solo due: intrattenere ed educare. In linea di massima ogni prodotto lancia un messaggio, ma molto spesso questo passa in secondo piano rispetto agli eventi che prendono piede, attraenti in quanto realmente accaduti. Nel caso di Victim/Suspect – il docufilm di cui parlo in questa recensione – il messaggio viene prima del contenuto.
L’intera pellicola è stata pensata e impostata per denunciare un fenomeno tristemente diffuso e collegato alla violenza di genere. In Italia Victim/Suspect è disponibile su Netflix a partire dal 23 maggio, ma Kaleidoverse ha avuto la possibilità di guardarlo in anteprima, quindi ci tengo a rassicurarvi: in questo articolo non troverete spoiler, ma solo riflessioni sull’impostazione e sulla narrazione di un fenomeno reale e complesso.
Victim/Suspect Recensione: di cosa parla il docufilm
Victim/Suspect è la concretizzazione di una lunga indagine giornalistica portata avanti da Rae De Leon e dal collettivo di giornalisti investigativi con i quali lavora, il Centro di Giornalismo Investigativo. Al centro dell’indagine ci sono moltissimi casi di violenza sessuale, denunciati dalle vittime ma misteriosamente trasformati in casi di falsa denuncia, alla fine dei quali le uniche persone ammanettate sono proprio le vittime. Rae quindi si batte per ottenere prove che smontino queste false accuse, scontrandosi con un vero e proprio muro di silenzio e ostruzionismo messo in piedi proprio dalle forze dell’ordine.
Victim/Suspect si inserisce pienamente nel filone del documentario true crime, ma lo fa con una marcia in più: le classiche tecniche narrative del genere fanno volentieri a meno della ricostruzione in favore del realismo puro e semplice, che basta per comunicare efficacemente quanto accaduto. Questo è possibile grazie all’estenuante lavoro di Rae e dei suoi colleghi, che si procurano i rapporti, i filmati degli interrogatori e le eventuali prove, ma anche grazie alla preziosa collaborazione delle vittime, che non si limitano a raccontare gli abusi subiti, ma aiutano la giornalista a ricostruire in prima persona quello che è accaduto loro.
Victim: quando la vita si blocca due volte
Uno degli aspetti che emergono nel corso della visione del film riguarda in particolare le vittime, che in questo caso lo sono due volte. Il primo abuso, infatti, è quello sessuale, che causa un trauma inimmaginabile nella persona. Il secondo, invece, avviene all’interno della centrale di polizia, un luogo dove la vittima dovrebbe sentirsi al sicuro. Questo ennesimo trauma sbilancia ulteriormente la persona che si ritrova, ancora confusa e sconvolta, con il dito puntato contro, piuttosto che con una mano tesa in aiuto.
Le donne che hanno aiutato Rae e che si sono esposte hanno raccontato innumerevoli volte quello che hanno dovuto affrontare, dall’abuso fisico a quello istituzionale. È evidente, ascoltando i loro racconti, come le loro vite si siano bloccate due volte: nel momento della violenza e in quello dell’accusa, che le ha trasformate quasi automaticamente in voci inascoltate e bugiarde patologiche, tese unicamente ad attirare l’attenzione. Questo ostracismo quasi convenzionalmente messo in atto – almeno, secondo quanto emerge nel corso del film – non si limita a ferire ulteriormente le vittime, ma asseconda i perpetratori facendoli sentire al sicuro.
Suspect: tradite dal distintivo
Il punto forte dell’indagine è infatti l’esposizione della polizia – intesa in quanto corpo istituzionale – che appare come unico vero colpevole di questa situazione. È allarmante il modo in cui De Leon riesce a dimostrare l’inadeguatezza delle forze dell’ordine di fronte a fenomeni come la violenza di genere, evidentemente percepita in una chiara ottica: se la vittima denuncia, non è una vera vittima perché le vere vittime sono così traumatizzate dall’accaduto da tenersi tutto dentro. Se la donna – o l’uomo – conferma gli abusi, allora sta solo cercando di attirare l’attenzione e non è quindi “degna” – o “degno” – di essere una vittima.
I filmati che registrano gli interrogatori ne sono la dimostrazione lampante: non solo la polizia non svolge il proprio lavoro fino in fondo, adottando un lassismo deleterio sia nei confronti della cittadinanza che del simbolo che rappresentano. Il capovolgimento della situazione – da vittima ad accusata – è sintomo di una retorica più profonda che parte dalla nostra società come collettivo. Non è un caso se, quando le vittime finivano completamente esposte come bugiarde sui media, nessuno ha alzato la voce per prendere le loro difese; le uniche reazioni di fronte a quelle accuse e al rischio di finire in galera sono state altre dita puntate.
Il progetto di Rae: verità vuol dire giustizia?
Visti questi presupposti il lavoro di Rae – realizzato ovviamente insieme a molte altre figure professionali – appare come un’impresa titanica. Questo perché se in prima battuta l’obiettivo più immediato è quello di esporre le mancanze e le colpe di ufficiali che hanno chiaramente svolto male il proprio lavoro per ristabilire pubblicamente lo status delle donne coinvolte, non è l’unico. La giustizia infatti non si raggiunge tanto facilmente quanto si spererebbe, e dopo che il danno è stato fatto rappresenta una magra consolazione sapere di essere nel giusto.
Parallelamente al lavoro investigativo e alla lotta per il riconoscimento degli errori della polizia, allora, una parte corposa del docufilm si occupa di mostrare come la voce delle vittime – e di chi per loro ha denunciato queste teniche vessatorie – non sia completamente andata perduta. Internamente al mondo delle forze dell’ordine è infatti nata una campagna di sensibilizzazione e di consapevolezza che ha come obiettivo fermare questi comportamenti e fornire delle linee guida efficaci per gestire al meglio questi casi.
Le nostre conclusioni su Victim/Suspect
Victim/Suspect è un film che porta con sé un messaggio e dei contenuti molto forti: non c’è alcun tipo di censura o di arretramento nei confronti delle autorità, che invece hanno continuato – e continuano tutt’ora – a restare in stoico silenzio di fronte alla richiesta sempre più pressante di risposte. Sminuire una persona che ha subito un reato, rendendola responsabile di quanto accaduto, non è semplicemente un atto riprovevole: è un attacco diretto, che può avere delle conseguenze anche molto tragiche, e questo non può in alcun modo essere ignorato.
Spero che questo docufilm vi smuoverà come ha fatto con me e che vi faccia infuriare allo stesso modo: vorrà dire che non tutto è perduto. Come sempre, in chiusura della recensione di Victim/Suspect (e quindi di questo articolo) vi invito a seguire Kaleidoverse sui social: in questo modo saprete quando usciranno i nuovi articoli (e quando andremo alle anteprime). Inoltre, se avete voglia di parlare con uno di noi non dovete fare altro che iscrivervi ai nostri gruppi community (su Facebook e su Telegram). Vi aspettiamo!
Victim/Suspect è un docufilm-manifesto perché non si limita a raccontare una storia, ma denuncia un fenomeno radicato e diffuso in tutti gli Stati Uniti. In maniera semplice e diretta questo film mostra il frutto di 4 anni di lavoro di un collettivo di giornalisti che hanno scavato a fondo per trovare la verità dietro alcune notizie sconcertanti, e quindi si racconta come video reportage. Il montaggio è fluido e incorpora benissimo il girato con le prove raccolte e con le interviste. La marcia in più è rappresentata dall'assoluta trasparenza da parte dell'occhio della regista, che non ha tralasciato nessun dettaglio e ha quindi contribuito grandemente alla conferma del messaggio di fondo del film.