Avete presente quei sobborghi italiani sperduti tra le montagne e dimenticati da Dio, dove vivono le stesse famiglie da generazioni, e nulla sembra mai cambiare? Quei paesini quasi angusti, etichettati come “la culla della nascita e il lasciapassare per la morte”, dove tutti sanno tutto di tutti, ma fanno finta di non sapere. Insomma, ci si fa i fatti propri, sperando d’incrociarsi il meno possibile durante le proprie giornate. La storia cinematografica del genere horror e/o thriller utilizza questo tipo di canovacci come espediente da sempre, creando quasi un alone di terrore verso i corrispettivi, nella vita reale. E anche Post Mortem, in uscita il 25 agosto su Netflix, non è da meno, solo che a differenza dei sobborghi italiani nei quali tendono a morire, generalmente molti anziani, a Skarnes non muore proprio nessuno.
L’opera diretta da Harald Zwart e Petter Holmsen partiva, almeno in principio, con l’idea di essere una serie thriller/horror, con una velata vena comica aggiuntiva. E ciò era più che deducibile partendo dal trailer, strutturato in una maniera tale dal far assaporare una sorta di connessione tra Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes e Scary Movie. Solo che, a prodotto finale assorbito e digerito, ci troviamo di fronte a un piatto che cerca di essere, nello stesso momento, primo, secondo e contorno. Non che vi sia qualcosa di male nel cercare di mettere, in contemporanea, due piedi in più scarpe, ma si rischia di cadere spesso nel caos. Sarà anche il caso di Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes?
Il post mortem
A livello medico, riuscire a definire un essere umano come definitivamente morto rimane tutt’oggi una delle questioni bioetiche più complesse da gestire. La certezza del decesso viene stabilita in base a una serie di fattori presi in considerazione dal momento in cui il cuore smette di battere, ai posteri di più tentativi di rianimazione. Ed è proprio ciò che viene dichiarato, in successione al ritrovamento della nostra protagonista, solo apparentemente morta. La polizia di Skarnes, composta da Judith (Kim Fairchild) e Reinert (André Sørum), nonostante i pochi mezzi economici a disposizione, decide di sottoporre il corpo di Live (Kathrine Thorborg Johansen) a un’autopsia. Il cadavere viene prelevato dal padre Arvid (Terje Strømdahl) e dal fratello Odd (Elias Holmen Sørensen), dato che il business di famiglia consiste nel possedere la più antica agenzia di onoranze funebri di Skarnes, la Hallangen.
Una volta portata la ragazza in obitorio e preparato il necessario dai dottori per svolgere le procedure, Live si risveglia, nello stupore generale degli spettatori. È qui che ho molto apprezzato come i creatori di Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes hanno deciso di gestire le morti. Al posto di fasi tenebrose o magari ricche di ansia e paura, hanno scelto di affidarsi alla sensazione pura e gelida che solo un corpo senza vita può procurare, alla vista. Il tutto è palpabile, quasi come se si volesse far percepire cosa si prova davvero nell’assistere alla fase di post mortem di una persona. Le inquadrature, sotto questi aspetti, sono eccezionali, in quanto si riesce a far comprendere allo spettatore il distacco emotivo che vi è tra il corpo deceduto e chi deve analizzarlo. In fondo, una volta sopraggiunta la morte, rimane solo l’alone gelido trasmesso dal cadavere malcapitato, no?
Spiegazioni mancate
Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes è formata da sei episodi, dalla durata di circa 45 minuti l’uno, che riescono a scorrere con tranquillità. Anzi, direi che la serie si presta tranquillamente al più classico dei binge watching, vista la breve durata, i cardini principali che dovrebbero spiegare tutta quest’assurda situazione che si sta venendo a creare col procedere della trama, vengono snocciolati con assoluta precisione. Il ritmo di narrazione non scavalca mai il progredire dei personaggi, che anzi riescono a emergere guadagnandosi ognuno il giusto spazio a schermo. A questo proposito, è proprio la prova attoriale del fratello di Live, Odd, a spiccare tra tutti i colleghi. Le tragedie che si susseguono in tempi così ristretti lo abbattono, e la sua capacità espressiva riesce a suscitare quell’empatia necessaria per comprenderne le varie sfumature.
Il problema, in mezzo a tutti questi elogi, è che Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes non riesce a chiudere nessuno dei cerchi aperti. Permettetemi, è come quando un allenatore di un qualsiasi sport prepara una partita minuziosamente, ma vede la sua squadra comportarsi come sperato solo fino a tre quarti del match. Giunto l’ultimo il team si sfascia, lasciando spazio agli avversari per colpire e portarsi a casa la vittoria. Siamo di fronte a un prodotto che tra preambolo e introduzione dei concetti si comporta egregiamente, ma si dimentica di arrivare al dunque. Nessuna delle tematiche introdotte viene portata a termine con una spiegazione esaustiva, lasciando l’amaro in bocca e la speranza che vi sia un seguito. Questo perché, qualora così non dovesse essere, Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes rimarrà solo e inesorabilmente, un’opera incompiuta.
Il sangue come droga
Quando si iniziò a parlare di Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes, nacque spontaneo pensare come gli effetti provati da Live fossero risolvibili agendo da vampiro. Infatti, a seguito della sua “magica” resurrezione, l’effetto collaterale più grave, oltre all’amplificazione dei sensi a livelli astronomici, coincide col bisogno viscerale di sangue. La nostra protagonista si troverà costretta a rincorrerlo, per ingerirlo entro un certo lasso di tempo che non ci è dato sapere, altrimenti si trasformerà in una furia omicida. Ed è qui che risiede la differenza principale coi vampiri: in Post Mortem, siamo di fronte a delle persone non in grado di controllarsi, almeno fino alla prossima dose.
Il sangue, quindi, assume lo stesso ruolo che avrebbe una droga tenuta lontana per troppo tempo dà una persona dipendente. Nel momento in cui Live giunge nello stato confusionario, perde sì il controllo di sé stessa, ma non cancella i ricordi una volta rinsavita. La protagonista di Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes è dunque vittima di una sorta di maledizione che non le permetterà mai di avere una vita normale. L’unica spiegazione che la serie prova ad accennarci sul tema risiede nella presenza, all’interno della sua famiglia, di un precedente membro condannato a vivere lo stesso dramma. La differenza tra una persona dipendente da droga e Live è molto triste da constatare, dato che la prima può uscirne, mentre la seconda no. Non c’è scelta, ma solo un bagno di sangue che la attende, fino a quando qualcuno non dovesse riuscire a bruciarla viva (unico modo possibile per morire).
Le nostre conclusioni su Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes
Per concludere quindi, possiamo dirvi con certezza come Post Mortem – Nessuno muore a Skarnes abbia bisogno di un prosieguo. Questo perché, con la situazione attuale e il finale non proprio conclusivo, siamo di fronte a un’opera purtroppo incompiuta. È un po’ come fossimo in piedi davanti a un palazzo costruito su fondamenta solide, ma senza il progetto per tirarlo effettivamente su. Ciò nonostante, mi viene difficile giustificare una mancanza totale di spiegazioni per quanto riguarda quasi tutti i concetti base introdotti dalla trama. Il tentativo della serie di poter essere identificata in troppi generi fallisce, generando un effetto imprevedibile, almeno a priori. La sensazione che si ha è quella di essere alle prese con una semplice storia, nella quale alle volte qualcuno arriva a bere sangue da una sacca per prelievi, o si diverte a preparare frullati con frutti di bosco gocce di liquido rosso umano. Insomma, speriamo per il futuro che arrivi l’annuncio per una seconda stagione, ma fino ad allora vi aspettiamo su Kaleidoverse e nel nostro canale Telegram per rimanere sempre aggiornati sul mondo del cinema e molto altro.
Post Mortem - Nessuno muore a Skarnes è una serie incompiuta, bisognosa di un prosieguo, vista la mancanza praticamente totale di spiegazioni sulle tematiche introdotte dalla trama. L'opera riesce comunque a sviluppare i personaggi, anche quelli secondari, regalando a ognuno di essi delle storie affascinanti e mai banali. Tra questi, emerge rigogliosa la prova attoriale di Odd (Elias Holmen Sørensen), fratello della protagonista, che grazie alla sua espressività riesce a generare empatia negli spettatori. La regia funziona, grazie a delle inquadrature quasi sempre utili a cogliere i vari significati del momento. In complesso un buon lavoro, ma solo per tre quarti.