Jean-Pierre Jeunet torna dopo quasi dieci anni alla regia di un lungometraggio che rimette in questione l’umano e analizzando gli aspetti dell’incontro tra macchina e uomo, libero arbitrio ed empatia, e una serie di altri fattori che spunteranno in quest’analisi ed emergeranno naturalmente ai vostri occhi durante la visione: l’estroversione fa da padrona. Accompagnati da un minimalismo distopico ormai onnipresente, una vivacità di colori e personalità ingannevoli, e una fotografia che se pur banale nei temi, presenta delle sfumature interessanti: entriamo quindi nell’universo di Bigbug in questa recensione senza spoiler.
Anno 2045: Siamo in casa di Alice (Elsa Zylberstein), in un mondo in cui uomini e macchine convivono e gli androidi sembrano possedere una certa indipendenza, qui, si sta un passo indietro: i robot sono ancora al servizio dell’uomo e la stravagante padrona di casa possiede una grande collezione di oggetti d’ “antiquariato”. Una serie di conoscenti, con legami di vario tipo, le fanno visita, ma per un evento singolare rimangono tutti intrappolati all’interno dell’abitazione, generando l’equivoco di partenza di questa commedia corale.
Il dilemma di Bigbug
È sempre bello osservare come in opere di questo tipo ci sia una sorta di competizione riguardante il progresso tecnologico. Tutti giocano alla novità migliore, più comoda, che generi più disagio possibile allo spettatore in quanto marcatore della sostituzione dell’uomo. Bigbug non fa eccezione e anzi, si apre al pubblico presentando una carrellata di incredibili prodotti e lasciano alla tecnologia il compito di introdurci all’ambiente e raccontarci i personaggi, persino spiegando ciò che provano. Ci aiutano nel processo; fanno il nostro lavoro: ecco uno dei nuclei del racconto messo in chiaro sin dall’inizio. Pur essendo in un contesto definibile retrogrado per gli standard intuibili in quei pochi sguardi verso l’esterno, e che si azzarda a rivangare il passato mancando di fede al futuro, si è avvolti dalla solita atmosfera di ignoranza generale affibbiata all’essere umano, alimentata da una comicità volutamente ridicola ed eccessiva.
Il contrasto che si vuole presentare è fatto da macchine sempre più umane e umani sempre più sfaticati, manchevoli di conoscenza, con i paraocchi di fronte alla loro messa in ridicolo tranne che per un elemento, il quale se vogliamo va di pari passo con quest’ultima caratteristica: l’espressione dell’umanità. I robot cercano, e in parte riescono, a capire ciò che costituisce l’apparato sentimentale dell’uomo. Come già detto, essi riescono anche a captarlo e definirlo ma non riescono mai a esprimerlo. D’altra parte, a dimostrazione che invece tutto ciò fa ancora parte di loro, gli umani esprimono ironia e amore, in un modo affine alla volontà della commedia tradizionale: personaggi ridicoli, sopra le righe, dinamiche familiari e/o sessuali che ricordano la nostra commedia all’italiana, fortunatamente togliendone un quarto della volgarità. Non viene messo nulla su un piedistallo, si scende in basso verso gli elementi primari dell’uomo, mostrandolo addirittura allo stato primitivo, e lo si osserva nella sua perdita di dignità. E io continuo a chiedermi: si tratta di una bellissima unione fra tratti tipici di un genere cinematografico e il contesto di riferimento, in un ottica di estrema coerenza del messaggio, oppure è soltanto una pigra e ridondante messa in scena stereotipica?
Una via intermedia
A soluzione di questo dilemma è bene iniziare ad analizzare i piccoli dettagli che creano e portano avanti Bigbug nel susseguirsi delle vicende su riassunte. Partiamo subito col dire che la realtà presentata è plausibile, un criterio che all’interno della comicità e soprattutto della distopia risulta fondamentale. È accurata in tutte le dinamiche esposte: la pluralità di assistenti vocali, le newsletter sempre più invadenti, l’obsolescenza programmata e altri fattori di cui lasciamo a voi l’esplorazione. Tutto ciò è visibile attualmente facendosi un giro nelle case di qualche appassionato, nelle metropolitane delle grandi città e nei prodotti high-tech contemporanei, ed è questa la causa che fa scaturire il disagio, la paura, la risatina con l’amaro di fondo. Caratteristiche che all’interno della pellicola vengono evolute: il libero arbitrio dell’uomo soccombe sempre più e passa dal comandare le macchine, al fare richieste, all’implorazione. In che fase ci troviamo attualmente?
Nonostante il senso d’immedesimazione che queste dinamiche comportano, c’è sempre una barriera che impedisce di entrare completamente al loro interno, un distacco emotivo che non fa né ridere con loro, né ridere di loro. Ed è lo sconfinamento della stupidità dei personaggi, l'”eccesso dell’eccesso” fortemente discorde con quello che i protagonisti sono veramente e che dimostrano di essere nei loro svariati atti creativi, i quali così facendo, vengono sviliti, appiattiti e privati di senso. Se l’unico baluardo d’umanità è riscontrabile in un’espressione di se votata a dinamiche “divertenti” quanto antiche, allora ciò che lo spettatore vede in Bigbug è destinato a scomparire poco tempo dopo la visione, poiché è privo di sguardo nuovo.
Le nostre conclusioni su Bigbug
La maestria nel raccontare in maniera originale tratti del quotidiano o futuro quotidiano dell’uomo è figlia di una consapevolezza che tira la sceneggiatura del regista di Amélie fuori dallo spettro dello stereotipo ma non la fa allontanare del tutto. La regia è abbastanza efficiente nel descrivere il medesimo spazio per circa 2h, rendendolo non solo meno asfissiante ma sempre più accogliente col passare del tempo. Fotografia e scenografia seguono lo stesso pattern: saturazione al massimo, minimalismo nell’arredo e nei movimenti di macchina, colori pastello. L’unione di ciò che traspare leggerezza quando nel profondo c’è il caos, siamo abituati.
Insomma, alla visione di Bigbug vi ritroverete immersi in uno scambio di conoscenza, idiozia, amore e sarcasmo tra esseri umani e il frutto della loro creazione senza troppe novità. Una di queste però è degna di esser menzionata, poiché rappresenta lo spiraglio di differenziazione dal resto: “errare è umano”, ciò che forse è l’ideale di umanità pensato in origine da Jean-Pierre Jeunet. Capirete meglio una volta finita la visione della sua ultima fatica presente su Netflix. Nel frattempo, continuate a seguire Kaleidoverse, il canale Telegram per non perdervi alcun contenuto, il canale Youtube per le videorecensioni e i profili Instagram e Facebook per tanti contenuti interattivi.
Bigbug è la storia del dialogo tra umani e macchine, contornati da un atmosfera mantenuta dal ridicolo e dall'estroverso. Il film va avanti rappresentando un flusso di scambio continuo tra i due esseri cercando di far riemergere un'umanità che come al solito in queste previsioni, pare perduta. La coralità non lascia spazio alla profondità ma genera molteplici piccoli spunti di riflessione che uniti al comparto tecnico formano un mosaico davvero godibile se pur in parte dimenticabile.