L’autunno è la stagione perfetta per immergersi in storie ambientate in territori selvaggi e brulli, pieni di niente se non di loro stessi. Per questo motivo l’uscita su Netflix de Il Prodigio – film diretto da Sebastián Lelio – in questo periodo cade a fagiolo. Distese bucoliche e desolate, abitazioni spoglie e poco illuminate, abiti con gli orli sporchi di fango e torba. È l’Irlanda della seconda metà del 1800, nella quale si muove un cast di volti espressivi e comunicativi, contenitori delle anime di carta di Emma Donoghue. Seguiamo le vicende de Il Prodigio tramite questa recensione
Nel cast sono presenti Florence Pugh (Black Widow), Kíla Lord Cassidy (The Doorman), Tom Burke (The Musketeers), Elaine Cassidy (The Others), Niamh Algar (Raised by wolves), Ciarán Hinds (Belfast), Toby Jones (Harry Potter e la camera dei segreti) e Abigail Coburn (Il professore e il pazzo). Alla sceneggiatura hanno lavorato il regista, l’autrice del romanzo da cui è tratto il film e Alice Birch (Normal People). La direttrice della fotografia è Ari Wegner (Il potere del cane), mentre Matthew Herbert (Disobedience) ha composto le musiche.
Singolarmente bellissimo
Il Prodigio è sicuramente un film singolare. Incanta per la fotografia e le scelte registiche, che mettono in risalto i territori selvaggi e rustici dell’Irlanda (ricordando molto Cime Tempestose e Jane Eyre). In effetti sembrano esserci anche altri riferimenti alle opere delle due sorelle Brontë, che partono dal romanzo. Nel primo capitolo, infatti, la nostra protagonista riflettendo sul compito che le è stato affidato si paragona piuttosto acidamente a Grace Poole. La donna, nell’opera di Brontë, è la custode della moglie di Rochester, rinchiusa in soffitta perché pazza.
Nel film, tuttavia, sembra che la similitudine voglia essere spostata sull’eroina del romanzo, ovvero Jane Eyre stessa. Ciò è evidente se si è visto il lungometraggio del 2011 diretto da Cary Fukunaga. Le atmosfere, l’abito di Lib, il suo portamento e il suo atteggiamento stagliano un’inequivocabile ponte verso la Jane Eyre di Mia Wasikowska. Questo rimando è importante e non va sottovalutato, nonostante la storia in sé sia molto diversa e ruoti in realtà intorno a temi che si allontanano anche di molto dal classico inglese, e vedremo in seguito perché, e in quali punti Lib Wright rompe questo legame con Jane Eyre, dimostrandosi tutto sommato una donna al contempo uguale e diversa a lei.
Come in un quadro
Oltre ai riferimenti (voluti o meno) a Jane Eyre, è notevole anche l’impegno profuso nel cercare di restituire un mondo legnoso, vecchio, scarno, svuotato, eppure pieno di colori scuri e profondi che riportano alla mente alcune opere di Van Gogh e di Rembrandt (o il celebre bacio di Hayez). Anche l’uso sapiente – in alcuni punti della pellicola – di un filtro patinato che ricorda molto le prime fotografie, ruvide al tatto e opache, contribuisce a trasportarci in un’altra epoca, a immedesimarci.
L’immedesimazione è fondamentale durante la visione di qualunque film, ma in questo viene esaltata da una sorta di prologo straniante, che ci pone di fronte al set e alle macchine da presa incustodite in un chiaro esempio di metacinema. Sono solo un paio di minuti, eppure il messaggio consegnato da una voce fuori campo è piuttosto chiaro: “Le persone che state per incontrare – i personaggi – credono nelle proprie storie con assoluta devozione. Non siamo niente senza storie e dunque vi invitiamo a credere in questa”. Potremmo dire che in questa frase è contenuto tutta la storia, senza esagerare.
A caccia di miracoli
Ma qual è la storia? Lib Wright è un’infermiera inglese che viene assunta da un gruppo di uomini irlandesi per fare da osservatrice a una peculiare bambina, Anna O’Donnell. L’undicenne, infatti, non mangia da ben quattro mesi eppure sta benissimo, e dunque un gruppo di persone del villaggio in cui abita la piccola ha stabilito che questa venga tenuta sotto stretta sorveglianza per ben due settimane, al fine di stabilire se si tratta di un imbroglio oppure di un miracolo. Nel suo compito, poi, Lib non è sola: condivide con lei questo lavoro la silenziosa suor Michael, con la quale la donna non può però comunicare liberamente.
Lib non riesce a credere all’assurdità della mansione che le tocca, ma poi inizia a dedicarvisi con rigidità e diligenza. Il suo lavoro è certosino e ripetitivo, e non viene visto molto positivamente (così come le sue opinioni prettamente scientifiche) dagli abitanti del villaggio. Qui si inserisce il tema della cieca devozione: Dio e la religione cattolica sono presenti nel corso di tutta la pellicola, in netto contrasto con Lib e con quanto rappresenta (un’infermiera proveniente da una nazione che non ha esattamente buoni trascorsi con i cattolici). Questa profonda differenza di fondo mette ancor più in evidenza l’unicità di Lib in quel contesto, che cambierà la situazione per sempre.
Devozione, pura e semplice
La devozione come tema cardine del film non riguarda solo ed esclusivamente la religione cattolica, ma compare in altri modi e nei confronti di altri idoli. Lib, per esempio, insieme al suo piccolo fagotto macchiato di sangue rappreso rappresentano il simulacro di una vita che non ha avuto il tempo di sentire davvero sua: quella di madre. E la ripetitività (tipica proprio del suo personaggio) di quello che è a tutti gli effetti un triste rituale ricorda le movenze dei sacerdoti che apparecchiano l’altare per preparare l’eucarestia. L’infermiera vi ripone una cura quasi ossessiva, e si abbandona all’estasi che ne deriva con arrendevolezza.
Questo rituale, che inizialmente potremmo attribuire a un meccanismo di elaborazione del lutto, in realtà rappresenta a nostro avviso qualcosa di più profondo: la devozione (venerazione, anche) nei confronti della vita e della sua conservazione. E questo si ricollega – seppur brevemente – allo status di vedova di Lib, che le viene fatto pesare insieme a quello di donna non accompagnata ed emancipata. Così, in un certo modo, la donna diventa strega, opposto della piccola Anna, che viene ammirata come santa. Ma qual è il confine che definisce una donna santa o strega? Il film ci spinge a chiedercelo: santa, strega, o bugiarda?
Quello che si vede
Durante la visione, a causa della bellezza visiva e dell’impostazione asciutta della narrazione lo spettatore viene circondato e attratto dal mondo che vede, dimenticandosi della scena iniziale del film e concentrando tutta la propria attenzione sulla piccola Anna per capire se mente o meno. Questo almeno finché il personaggio interpretato da Niamh Algar non rompe la quarta parete con un sorrisetto sornione che ci fa cadere dalle nuvole. Quella che stiamo guardando è una rappresentazione, non è reale, è come una recita. Esserne consapevoli muta il baricentro dell’intera vicenda, aiutandoci a individuare il punto focale di tutto quello che vediamo.
Nel film non è importante se la bambina mangi o meno “la manna dal cielo”; non è importante se la sua sia una bugia o meno. Conta quello in cui credono i personaggi (bambina inclusa). E quindi di nuovo il dente va a battere contro la devozione. Tutti noi siamo devoti a qualcosa, veneriamo qualcosa. E poco importa se sia una divinità o meno. Assistiamo nel corso della pellicola a un processo per stabilire la verità, ma la verità non esiste. L’unica verità a esistere è quella che ci convinciamo di vedere. È in una delle scene che precedono il finale che è più lampante, quella dell’ultima convocazione di Lib di fronte allo strampalato comitato, quando si discute delle sorti della piccola.
Il Prodigio: le nostre conclusioni
Il film si conclude con il principio di un nuovo inizio (non vi diremo di più), e con una sorta di ritorno alla realtà. Sicuramente è quello che accade agli spettatori, che terminano la visione quasi come risvegliandosi da un sogno. Avremmo potuto approfondire molti altri aspetti interessanti che si nascondono nella pellicola, ma alla fine abbiamo deciso di fermarci qui per due motivi. Il primo è che questa recensione sarebbe diventato un piccolo saggio. Il secondo è che siamo molto curiosi di sapere quali altri temi riuscirete a vedere voi.
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Il Prodigio è un film interessante che è impossibile giudicare su due piedi, perché molto più complesso di quanto appare. Sullo sfondo di un'Irlanda profondamente segnata dalla povertà e dalla fame si staglia una casetta con il tetto di paglia che nasconde un piccolo vaso di Pandora. Ipnotizzato da una rappresentazione visivamente appagante, lo spettatore si fa condurre per mano lungo un sentiero di campagna che sporca però anche i piedi di fango. Il film lascia lo spettatore pieno di un profondo senso di verità e di giustizia, ma anche con molte domande, alle quali non può corrispondere una lista ordinata di risposte, ma solo la certezza che la realtà sia tutto fuorché stabile, rigida e unica.