Siamo ormai nel cuore dell’inverno, con tutto quello che questo comporta: freddo, cattivo tempo, poca luce solare, ghiaccio e vento. Sembra essere proprio il tempo perfetto per stare sotto le coperte, magari sul divano con una bella tazza fumante tra le mani, a guardare la TV, vero? Dopo un po’, però, anche il dolce tepore della coperta stanca, e c’è quindi bisogno di equilibrare la situazione. Noi di Kaleidoverse vogliamo proporvi la soluzione ideale: si chiama Junji Ito Maniac ed è comparsa, dopo mesi di attesa, su Netflix il 19 gennaio e noi non potevamo evitare di scriverci una recensione.
Per quelli che ora si stanno chiedendo cosa c’entri un anime con il freddo, il caldo e l’inverno, ci pensiamo noi a rispondervi: in questa recensione vi parleremo infatti di una serie animata che porta agli spettatori ben venti storie inedite del maestro dell’horror fumettistico nipponico Junji Itō. Le storie che si susseguono sullo schermo sono una sorta di portfolio animato, preparato sia per gli amanti del genere che per i neofiti che non sanno nemmeno chi sia Junji Itō. In un mix altalenante di body horror, paura, disagio, inquietudine e stupore i 12 episodi dell’anime vi lasceranno con un brivido lungo la schiena che faticherà a scomparire.
Il maestro e la sua antologia
Junji Itō è a mani basse uno dei maestri dell’horror su carta. Ispirato da esperienze personali e da alcuni autori (tra cui spicca anche Lovecraft) le sue opere delineano un mondo bizzarro, al limite tra l’aleatorio e lo spaventevole, in cui un tratto semplice e pulito consegna al lettore un sublime kantiano senza però avere la pretesa di imporre una retorica morale. La bellezza del suo stile si amalgama con le contorte trame messe in piedi dai suoi personaggi, a volte tragicamente condannati, altre incredibilmente inconsapevoli della stranezza che li circonda.
Itō si è affermato nel corso di molti decenni, producendo una miriade di volumi, alcuni ancora inediti nel panorama italiano, altri recentemente approdati nel nostro Paese. Per questo motivo – non possiamo non ribadirlo – Junji Ito Maniac è importante: la serie mette a disposizione degli amanti dell’horror un ventaglio di storie nuove, che attingono certamente a un determinato immaginario ma che lo ribaltano in maniera originale e inaspettata, toccando corde anche molto profonde in ciascuno di noi.
Case fredde, tavoli vuoti
I temi che emergono dalle singole storie sono tanti, ma è possibile individuare abbastanza punti comuni da poter tracciare un mappa piuttosto ramificata di percorsi che proseguono un po’ per tutti gli episodi. Il primo tassello che salta all’occhio è la famiglia: a partire dagli Hikizuri – tanti, tutti strani a modo loro – e finendo con la famiglia di Soichi, non ce n’è una che non presenti qualche problematica. In generale, molto spesso i protagonisti delle storie di Itō sono bambini o comunque adolescenti, che si ritrovano a dover affrontare situazioni assurde completamente da soli.
In realtà la cosa non dovrebbe stupirci più di tanto: negli anime i genitori dei protagonisti solitamente sono di sfondo. Il punto però è che le storie di Itō hanno sempre un qualcosa di corale in sé, che rende strana e addirittura stridente l’assenza della famiglia o comunque un menefreghismo di fondo da parte degli adulti, completamente irresponsabili e negligenti anche in situazioni di puro pericolo per i propri figli. Lo stesso distacco si applica anche ai rapporti tra fratelli e alle storie d’amore, che spesso hanno una tragica conclusione (come in La Bulla e in Muffa).
L’influenza lovecraftiana
I rapporti disfunzionali (famiglie infelici e amori che finiscono in tragedia) sono solo l’inizio del nostro piccolo percorso antologico. Sopra, infatti, abbiamo citato H. P. Lovecraft come autore che ha influito sull’arte di Itō, e chi conosce l’autore statunitense lo avrà sicuramente notato guardando Junji Ito Maniac. Accanto a sensazioni di terrore causate da strani fenomeni o dalla pura e semplice follia umana, mescolata a una sapiente dose di sovrannaturale, c’è un tipo diverso di terrore, molto più volatile e inafferrabile.
È la strisciante inquietudine di Oggetti trascinati a riva, o il reale terrore di La storia del tunnel misterioso, che mescola l’inspiegabile con la scienza (e forse per questo potremmo includere in questa sezione anche Strati di terrore) e che ritroviamo a più riprese nel corrispettivo letterario dello statunitense. Se a questo aggiungiamo poi anche alcune creature che popolano l’universo di Itō, innaturalmente vive e con gli occhi perennemente fissi e spiritati, o alcuni avvenimenti che sembrano essere completamente distaccati dalla realtà (come in L’intruso o in Palloncini appesi), il gioco è fatto.
Non-sense magneticamente inquietante
Chi scrive ha particolarmente apprezzato le storie dell’antologia con un velo di malinconia alla base (come La donna che bisbigliava all’orecchio). Tuttavia, le storie più terrificanti presenti nei dodici episodi sono quelle che hanno meno senso logico. Se, infatti, nel panorama horror molto spesso non viene data una spiegazione degli eventi che hanno luogo in un determinato prodotto, è anche vero che gli avvenimenti conservano comunque una parvenza di logica (per quanto contorta).
In molte storie di Itō, invece, la logica sparisce come un palloncino che esplode all’improvviso (e il riferimento non è casuale). In questo genere di storie, infatti, a fare davvero paura è la commistione della stranezza (mattoncino imprescindibile in tutte le storie di Itō) con la trasformazione di oggetti o di pratiche apparentemente innocue, risultante in mezzi di distruzione di massa o comunque di stravolgimento totale, senza che nessuna spiegazione venga fornita o senza mostrarci una conclusione effettiva della vicenda che stiamo guardando. Citiamo di nuovo, a questo proposito, Palloncini appesi, ma includiamo anche L’autobus dei gelati e Labirinto insopportabile.
Strati, maschere, doppelgänger
Un particolare che colpisce molto dello stile di Itō sono gli occhi, penetranti e diretti, dei suoi personaggi. Lo sguardo che questi ci riservano o puntano ad altri è sempre indice di fascino e di messaggi importanti. Che si tratti infatti di emozioni positive, negative, dell’abbandono della morte o della follia dilagante, gli occhi sono la chiave, il punto fisso, soprattutto in alcune storie che hanno a che fare con i doppelgänger e con i volti. L’esempio più lampante è sicuramente Tomie – Fotografia, la storia che ci fa conoscere il personaggio forse più famoso di Itō.
C’è poi Il covo del demone del sonno, o ancora L’intruso – tutte storie che mettono a nudo (a volte letteralmente) il lato nascosto e dunque inatteso dell’essere umano. Anche Strati di terrore racchiude in sé questo mezzo, asservito però a più significati (anche se ammettiamo che la maledizione di Reimi dà al fanciullino interiore paventato da Pascoli tutto un altro senso), tra cui anche l’esaltazione della bellezza esteriore, che viene puntualmente tramutata in orrore e in maschere al confine con il bestiale.
Maniac: il lato più buio dell’ossessione
Il vero filo conduttore della serie resta però quella parola nel titolo: “maniac”. La follia, infatti, scaturita quasi sempre dall’ossessione, è una forza motrice apparentemente inarrestabile per Junji Itō, che diventa mania e fa davvero paura. E ancora una volta ritornano gli occhi, ai quali si aggiungono sorrisi macabri, tirati a volte all’eccesso, e il sangue (tantissimo, che ben si abbina al body horror che tanto ha reso famoso il fumettista). I personaggi di Itō cedono facilmente a visioni folli e azioni terrificanti, che superano di gran lunga la paura nei confronti del sovrannaturale.
Sono le persone, dunque, i mostri: la madre di Reimi non vuole sentire ragioni ed è disposta a fare a pezzi la propria figli pur di riavere indietro l’affetto ormai sbiadito; Kuriko perde la testa quando suo marito sparisce nel nulla, regredendo a un stadio infantile; ogni singola storia presenta un certo grado di follia, dalla quale non ci si può liberare e che accompagna lo spettatore lungo il confine tra il reale e l’impossibile, che però sotto sotto forse non lo è poi così tanto.
Macabri contrappassi
Prima di avviarci alle note finali della nostra analisi su Junji Ito Maniac vogliamo evidenziare un ultimo, importante tassello che sembra comporre il panorama dell’arte di Junji Itō. Tralasciando i piccoli indizi che ci fanno supporre che le storie siano in qualche modo collegate tra loro, in alcuni episodi è lampante una sorta di contrappasso (quasi dantesco), che punisce i personaggi quando compiono degli errori. C’è sicuramente della poesia in ciò, e chi ha presente La città delle lapidi e La donna che sussurrava all’orecchio sicuramente avrà ben presente ciò di cui parliamo.
Anche I lunghi capelli in soffitta racchiude questa apocalittica visione: non c’è pietà per i peccatori, e a ogni torto corrisponde una tragica pena, che molto spesso conduce alla morte. Per questo motivo da un certo punto di vista più che di contrappasso potremmo parlare di vendetta da parte della vittima originaria del sopruso, oltraggiata e annichilita dalla cattiveria degli altri. Potenti dopo la morte, queste anime tormentate tornano per saldare il conto con il loro aggressore, chiudendo il cerchio e facendo avanzare la ruota del karma.
Le nostre conclusioni su Junji Ito Maniac
È lapalissiana l’ammirazione che chi scrive prova per il lavoro di Junji Itō. Altrettanto cristallina è la bellezza del suo universo, così profondo e macabro, e pensiamo che questa serie possa fungere da auspicio per l’adattamento di altre sue storie. Questo però non significa che il lavoro sia perfetto: abbiamo solo preferito tenerci le critiche per la fine, perché abbiamo ritenuto l’analisi dell’opera più importante. Purtroppo, per quanto lo stile animato sia definito ed elegante ci sono due pecche piuttosto gravi che devono essere appuntate: il doppiaggio poco accorto (con battute lasciate in originale senza alcun contesto) e l’uso superfluo e cacofonico della CGI, che rovina alcune scene.
Voi cosa ne pensate? Avete visto Junji Ito Maniac? Se sì, speriamo che lo abbiate fatto approfittando della versione sottotitolata. Noi vi invitiamo a farci conoscere le vostre impressioni su uno dei nostri canali community (Facebook e Telegram). Inoltre se volete restare aggiornati sugli ultimi film in arrivo nelle nostre sale o sugli ultimi articoli pubblicati sul nostro portale, seguiteci sui social… o potreste trovarvi la cara Tomie sotto casa con il suo gruppo di ferventi ammiratori.
Junji Ito Maniac è un'antologia terrorifica che per il concept potrebbe ricordare American Horror Story, ma che in realtà parte per destinazioni molto diverse. Ben venti storie del maestro nipponico dell'horror su carta si animano infatti davanti ai nostri occhi, dando modo di afferrare più globalmente un universo oscuro, contorto e magnifico. I personaggi colpiscono ognuno per motivi diversi, così come le storie che li muovono tra semplici fatti senza senso, vendette e follie. Proprio come una macabra giostra altalenante, la serie ipnotizza, annoia e spaventa, e questo mescolamento di sensazioni riesce a tenere lo spettatore davanti allo schermo fino alla fine. Piccole pecche sono però sicuramente il doppiaggio italiano, maldestro e superficiale, e l'uso forse un po' troppo evidente della CGI, che stona con lo stile generale d'animazione adottato.