Il 19 maggio è uscito su Disney plus il film White Men Can’t Jump, un dramedy sportivo misto a un buddy movie, che vuole trattare vari temi, oltre lo sport, tra cui il razzismo e la classificazione attraverso stereotipi. Anche se c’è la possibilità che molti di voi non ne siano a conoscenza, White Men Can’t Jump, è un remake. Anzi per meglio dire una rivisitazione del piccolo e sconosciuto cult degli anni ‘90 con lo stesso titolo originale, che nel territorio nostrano hanno deciso di chiamare con il fuorviante, e abbastanza imbarazzante titolo, Chi Non Salta Bianco È, rendendo ancora meno accessibile e confusionaria la possibilità del pubblico di ricordarlo. Come protagonisti aveva due giovani Wesley Snipes e Woody Harrelson e trattava una vicenda estremamente lontana e più tragica rispetto a quella del remake; ma svisceriamo meglio il tutto nella recensione di White Men Can’t Jump.
Los Angeles e Basket
Come per l’originale ci troviamo davanti allo street basket e ai campi di Los Angeles. Con Jack Harlow nei panni di Jeremy – evidente rilettura di Billy, il ruolo a suo tempo di Woody Harrelson -, mentre Sinqua Walls, attraverso Kamal, si confronta con la pesante eredità di Wesley Snipes all’epoca lanciato nel mondo cinematografico grazie alle partecipazioni nei film di Spike lee. Jeremy e Kamal sono due ex promesse del basket. Il primo, dopo un infortunio finisce a fare il preparatore sportivo per i ragazzi che si stanno avvicinando al basket e ad affrontare una dipendenza da antidolorifici. Il secondo, invece, non riuscendo a gestire la sua rabbia, poco prima di avere la possibilità di entrare nelle selezioni NBA aggredisce un tifoso, stroncando così la sua carriera sul nascere finendo a fare il corriere. Un giorno i due si incontrano.
Dopo i primi dissapori comprendono che possono unirsi per partecipare a tornei prestigiosi che potrebbero dare uno slancio alle loro vite e non solo. L’intreccio di questa pellicola segue il classico arco narrativo del riscatto. Arco narrativo che durante la visione diventa prominente e palese, ma che nella sua voglia di raccontare una storia di rivalsa cade vittima dell’errore di crederci troppo. Abbiamo così una trama piena di drammi, talmente tanto gremita di eventi tragici da poterci ricamare sopra un ulteriore film. Ma queste premesse cadono come tessere del domino sotto una messa in scena dell’intreccio eccessivamente pigra e bidimensionale. Non riesce mai ad avere il pathos che dovrebbe avere un film sportivo, soprattutto quando quest’ultimo è usato come parabola morale e di rivalsa.
Dramma e felicità
Come accennato poco sopra, all’interno del lungometraggio ci si trova presto invischiati nei drammi dei due protagonisti che cercano in ogni modo di mandare avanti le loro vite e le loro relazioni. Ma in una narrazione così satura di intenti – una volta il basket, una volta gli impedimenti psicologici, una volta la dipendenza – si trova difficoltà a scorgere davvero un “ruolo” e una direzione a cui la pellicola vuole puntare, facendo perdere identità, e spessore al film nel suo insieme. Lo scorrere degli eventi, allora, è tutto posto sulle spalle dei due protagonisti, i quali si ritrovano da una situazione di ostilità, fino ad arrivare, ben presto, a una collaborazione e a una amicizia, cosa che risulta scontata fin dai primi minuti. Qui infatti si presenta un altro problema della pellicola: la sua incredibile prevedibilità; al contrario dell’installazione originale che voleva (e riusciva) a stupire lo spettatore.
Qui ci si trova davanti ad una storia che esprime un altra volta la favola urbana, tipica di una narrazione prettamente americana ed americanizzata, dove ogni cosa va al suo posto, dove i protagonisti dopo avversità e difficoltà troveranno la felicità. Perché con l’approccio di rielaborazione apportata sia alla trama che ai rapporti rispetto all’originale degli anni ‘90, quello che poteva essere un aggiornamento ai nostri tempi di temi divisivi e socialmente importanti diventa solo l’ennesimo racconto edulcorato e che tratta le tematiche sociali con estrema leggerezza e sempre soltanto raschiando la superficie, lasciando il tutto su un tono scanzonato che si riduce ad un “posso ma non voglio”. Il pressapochismo viene addolcito solo con comicità e narrazione piatte, abbinate a uno spessore psicologico dei protagonisti e dei loro comprimari quasi inesistente.
Le nostre conclusioni su White Men Can’t Jump
Il lungometraggio aveva molto da dimostrare, soprattutto alla luce del materiale originale, sì figlio dei suoi tempi, ma di pregevole fattura. Purtroppo le aspettative non sono state ripagate, poiché ci si trova davanti a una reinterpretazione scialba che non è degna erede del materiale originale in cui l’unica vera connessione tra i due è il titolo dell’opera. Si nota durante la visione anche la mano inesperta – relativamente – del regista Calmatic, il quale non riesce a dare un’impronta interessante alla pellicola, ma porta a casa il compito appena sotto la sufficienza. Al suo secondo lungometraggio ha dalla sua una lunga e fruttuosa carriera come film maker di videoclip; questa sua esperienza nel mondo musicale si vede soprattutto in segmenti specifici del lungometraggio: la messa in scena durante le partite di basket e la colonna sonora.
Nelle prime si nota un certo dinamismo, un modo di muovere la camera estremamente derivato da videoclip, ma virtuoso e interessante, rendendo la partite dinamiche e piacevoli da vedere. La colonna sonora, per quanto non intrisa di molti brani memorabili o subito riconoscibili, risulta piacevole, ben studiata e soprattutto ben posizionata all’interno del lungometraggio. Voi avete visto White Men Can’t Jump? Vi è piaciuto? avete apprezzato la revisione o preferite l’originale? Fatecelo sapere nei commenti. Come sempre, vi invitiamo a leggerci su Kaleidoverse e a seguirci sulle nostre pagine social, dove pubblichiamo sempre contenuti. Se volete condividere con noi suggerimenti, consigli su nuovi film da vedere (ma anche anime, serie TV e videogiochi) o soltanto discutere delle ultime notizie, ci trovate sui nostri gruppi community, su Facebook e Telegram.
A dispetto del nome che porta, questo lungometraggio non ha nulla da spartire con il l'originale degli anni '90 con Wesley Snipes e Woody Harrelson. Si tratta di una totale rielaborazione della storia originale, un rifacimento che non giova alla pellicola, poiché perde di spessore ed emotività. Cerca di trattare le tematiche razziali e sociali, ma per via della natura estremamente superficiale e dei personaggi che vi si muovono al suo interno che risultano monotonali e senza una vera stratificazione psicologica, ne scaturisce un prodotto scialbo e soprattutto un'occasione mancata per parlare di temi importanti con una delle parabole più classiche del cinema, quella sportiva. Alla fine della visione rimane solo una bella messa in scena durante le partite e una buona colonna sonora, per il resto risulta un inefficace riproposizione. Piuttosto che perdere tempo dietro questo remake, consiglio vivamente la visione dell'originale che è, si figlio dei suoi tempi, ma apprezzabile allora come adesso.