Il nucleare evoca nella mente soprattutto immagini catastrofiche. Che si tratti del fungo atomico o di corpi irriconoscibili ricoperti di piaghe, le reazioni che sconquassano gli atomi sono ancora oggi pericolose e letali. Accanto all’uso bellico e nocivo le reazioni nucleari hanno trovato però anche il modo di donare, anziché togliere. È questo il principio alla base delle realizzazioni delle centrali nucleari, in grado di illuminare il mondo sfruttando poche risorse. Ed è anche uno dei temi che emergono da I tre giorni dopo la fine, come vi racconto in questa recensione.
Questa nuova serie Netflix – uscita il primo giugno – riporta lo spettatore all’11 marzo 2011 e all’ultimo disastro nucleare registrato: quello di Fukushima. I tre giorni dopo la fine approfondisce la vicenda, concentrandosi sugli sforzi compiuti dopo il terremoto e lo tsunami per arginare i danni che hanno trasformato la centrale di Fukushima Dai-ichi e il circondario in una zona rossa. In questa recensione non vi racconterò nel dettaglio il contenuto della serie, ma i fatti sono realmente accaduti, quindi non posso non farvi riferimento.
I tre giorni dopo la fine: un nuovo punto di vista
I tre giorni dopo la fine ci riporta prepotentemente indietro di 12 anni, raccontandoci lo svolgersi di una tragedia che già conosciamo sotto un’altra luce. La maggior parte dei prodotti realizzati sulla centrale di Fukushima, infatti, hanno pensato a evidenziare le conseguenze del disastro. I racconti di solito impostano l’incidente alla centrale come conseguenza secondaria del terremoto di magnitudo 9.0 e dello tsunami, rendendo il ruolo delle persone inutile.
Questa serie TV, invece, affronta lo svolgimento del disastro seguendo il progressivo e improvviso deterioramento da vicino. I punti di vista sono infatti quelli delle persone che si trovavano lì e hanno dovuto gestire l’emergenza. La trama segue Masao Yoshida (direttore della centrale), Maejima (responsabile della sala di controllo delle Unità 1-2), la famiglia di un operaio disperso, il Primo Ministro. gli operai coinvolti nei tentativi di raffreddamento dei reattori e altri funzionari governativi impegnati a vario grado nella gestione dell’emergenza.
I tre giorni dopo la fine Recensione: claustrofobia visiva
Dal punto di vista tecnico la serie è terrificante (in senso positivo), e chi scrive sospetta che questo dipenda in gran parte dalla mano di uno dei due registi, Hideo Nakata, già dietro l’iconico horror nipponico The Ring. Il montaggio gioca molto su tagli netti che interrompono la narrazione in momenti particolarmente cruciali e sul silenzio, che abbinato ai luoghi bui e senza finestre contribuisce a restituire una sensazione asfissiante e claustrofobica, simile a quella che devono aver provato i diretti interessati durante gli eventi. Nonostante la serie non abbia particolari deficienze emerge però una pecca nella post-produzione.
Al momento della visione in anteprima Netflix non ha reso disponibile il doppiaggio italiano della serie. Se decidesse di non farlo nemmeno in seguito sarebbe comprensibile, ma i sottotitoli hanno un evidente problema che potrebbe inficiare sulla visione complessiva. Traduzioni mancate e battute in ritardo sono infatti molto frequenti e creano una forte confusione. I tre giorni dopo la fine ha bisogno di essere seguita con attenzione perché spesso vengono citati termini tecnici e spiegazioni lunghe. E ciò è molto complicato se i sottotitoli non sono accuratamente posizionati.
Il fantasma di Chernobyl 25 anni dopo
Una delle prime cose che torna in mente allo spettatore, oltre agli echi della vicenda sulle nostre televisioni, è il disastro di Chernobyl. Nel 1986 quell’esplosione sconvolse il mondo intero, mostrando che il nucleare, nonostante l’impiego benefico e vantaggioso, è deleterio e mortifero se gestito male. Le immagini di quel disastro si sono trascinate nel corso degli anni, rinforzate da documentari e film. Fukushima non fa eccezione, ma nel 2011, quando si verificò l’incidente, il fantasma di Chernobyl si ergeva sulle pareti degli uffici gelando il sangue nelle vene.
Il ricordo di quella catastrofe aleggiava nelle coscienze delle persone e preannunciava la condanna dell’opinione pubblica nonché la fine del mercato giapponese. Questo aspetto nella serie viene rimarcato spesso e messo in diretta opposizione alla forza principale raccontata, ovvero quella di Yoshida e compagni che non pensano alle ripercussioni a livello economico: vogliono solo salvaguardare l’integrità della centrale per non eliminare il benessere degli abitanti della zona per sempre.
Restare fino alla fine
Un altro elemento che colpisce molto durante la visione della serie oltre al comparto puramente tecnico è la tipologia di narrazione adottata. Il Giappone viene solitamente dipinto come una nazione fondata principalmente sull’onore e sul senso del dovere. I tre giorni dopo la fine conferma questa narrazione: i dipendenti della centrale – quelli più anziani – scelgono di restare nonostante la situazione sia in progressivo declino perché reputano il loro sacrificio necessario al bene della comunità.
Non solo: l’intera serie è satura della profonda devozione che questi uomini hanno nei confronti dei loro concittadini e della centrale stessa. Questo sentimento si intreccia tra le persone e i mattoni degli edifici, comunicando non solo la volontà di far rientrare una profonda crisi, ma anche quella di conservare un luogo quasi sacro, tramandato nel tempo e costruito da molte mani, come più volte viene ricordato. Perdere il controllo della centrale rappresenterebbe la perdita del controllo di un’eredità vecchia mezzo secolo e l’esaurimento di un fuoco di Prometeo che ha portato ricchezza e agio al Giappone intero.
Le nostre conclusioni su I tre giorni dopo la fine
Ricordare i disastri nucleari in documentari, film e serie TV è un’importante opera di prevenzione e di informazione sui potenziali rischi di una cattiva gestione di una fonte energetica ancora così instabile. I tre giorni dopo la fine, però, non si limita ad ammonire gli spettatori ispirando nuove norme e nuovi protocolli sulla sicurezza e sui disastri naturali. Questa serie – che chi scrive incoraggia caldamente a guardare – è un monumento alla memoria degli sforzi compiuti per non rovinare il futuro delle persone e al coraggio degli attori coinvolti, che hanno dovuto gestire alla cieca una situazione nuova e terrificante.
Vedrete I tre giorni dopo la fine? Spero proprio di sì. Nel caso in cui voleste discutere della serie e degli altri prodotti che Netflix ha dedicato a Fukushima (come l’episodio di Unsolved Mysteries “Gli spiriti dello tsunami”) potete farlo iscrivendovi ai nostri gruppi community (su Facebook e Telegram). Inoltre, vi invito a seguire Kaleidoverse anche sui social, per restare aggiornati sugli articoli che pubblicheremo in futuro e sulle anteprime stampa dei film più attesi di questo 2023.
I tre giorni dopo la fine è una serie TV da guardare con calma e attenzione. I registi hanno saputo infatti usare il mezzo seriale per infondere nello spettatore tutte le sensazioni che i protagonisti della vicenda - l'incidente nucleare di Fukushima - hanno esperito, inchiodandolo alla sedia e trasportandolo indietro di 12 anni. Le atmosfere e il montaggio trasformano la visione in una prova di forza di volontà, restingendo il campo visivo e raccontando l'impegno di un gruppo di persone, incapaci di arrendersi di fronte alla violenza della natura e agli imprevisti che può generare. Basata su testimonianze reali, I tre giorni dopo la fine non è una serie che dimenticherete presto, anche se la sincronizzazione dei sottotitoli forse avrebbe meritato più attenzione.